La contabilità tra territori come strumento di conoscenza, non di rivendicazione

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In foto, da sinistra, Adriano Giannola e Luca Bianchi, presidente e direttore della Svimez

di Adriano Giannola, Presidente SVIMEZ e Luca Bianchi, direttore SVIMEZ

Si torna a discutere della distribuzione della spesa pubblica tra Nord e Sud del Paese. Il confronto tende a polarizzarsi su due posizioni estreme difficilmente conciliabili e la SVIMEZ viene talvolta associata, senza mezzi termini, al rivendicazionismo meridionale. È nel migliore dei casi una semplificazione, nel peggiore diventa una mistificazione della realtà, che più o meno consapevolmente alimenta una contrapposizione territoriale quanto mai dannosa.

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In coincidenza con il dibattito sulle priorità del Recovery Plan, e forse non solo per pura coincidenza, si torna a discutere della distribuzione della spesa pubblica tra Nord e Sud del Paese. Il confronto è stato avviato dall’Osservatorio CPI che esprimendo la spesa pubblica in parità di potere d’acquisto per tenere conto delle “differenze molto rilevanti nel costo della vita tra regioni”, ottiene il risultato di un Mezzogiorno che riceve “un trattamento più generoso del resto dell’Italia”.
Rimandando ad una più ampia nota SVIMEZ (www.svimez.it) per una discussione puntuale degli argomenti proposti dall’Osservatorio, tre questioni vanno portate nel confronto in corso per orientarlo verso una costruttiva dialettica.
La prima. Secondo l’Osservatorio CPI non è corretto prendere a riferimento il settore pubblico allargato che comprende, oltre alla PA, anche le Società a partecipazione pubblica nazionali e locali. Escludere o includere dal perimetro dell’intervento pubblico questi soggetti non è tanto un quesito “contabile”, quanto una scelta di metodo da operare rispetto all’obiettivo che dovrebbe guidare l’osservazione della distribuzione della spesa pubblica: comprendere come i territori siano raggiunti dall’intervento pubblico, diretto o mediato che sia. Se è vero, infatti, che il mercato guida una parte significativa delle decisioni di spesa di queste imprese, è anche vero che queste decisioni possono incidere significativamente sulla dotazione di infrastrutture sociali e sull’offerta di servizi essenziali ai cittadini (dal servizio idrico, all’energia, alla mobilità). Accade così che le partecipate locali garantiscano una spesa pro-capite di oltre 1.300 euro al Centro-Nord e inferiore ai 500 euro per abitante al Sud.
La seconda, la più rilevante sia per i suoi effetti contabili che per quelli di politica territoriale riguarda l’utilizzo della parità di potere d’acquisto. Se si assume che la spesa pubblica allocata in un territorio debba essere parametrata al costo della vita sostenuto dai cittadini che in quel territorio vivono, si sta implicitamente accettando l’idea che l’intervento pubblico, diretto o mediato dal mercato, debba rinunciare alla sua finalità di assicurare livelli di servizi di pari quantità e qualità su tutto il territorio nazionale. Il divario nei prezzi tra territori dipende infatti anche da fattori di contesto (innanzitutto l’offerta di servizi pubblici) sui quali proprio l’azione pubblica dovrebbe incidere. I prezzi delle abitazioni, ad esempio, quelli che hanno un impatto significativo sui differenziali di costo della vita sono più alti dove i trasporti, la scuola, la sanità funzionano meglio.
In ogni caso, anche ipotizzando che esista un indicatore di costo della vita idoneo ad apportare questo tipo di correzione senza snaturare la logica dell’intervento pubblico, è opportuno rilevare che andrebbe applicato solo a quella parte di spesa che riguarda i trasferimenti monetari alle famiglie. Al netto delle pensioni, si tratta di meno del 10% del totale della spesa, un valore non in grado di ribaltare l’evidenza di un maggior livello di spesa pro-capite al Centro-Nord.
Infine, per quanto in misura diversa, Banca d’Italia e Conti Pubblici Territoriali convergono nell’attribuire al Centro-Nord una spesa pro-capite superiore a quella registrata nel Mezzogiorno. Si va dai circa 1.100 euro di Banca d’Italia (ma il dato è riferito al triennio 2014-16) ai circa 2.700 stimati dai CPT (dato riferito al 2018). Soprattutto, a prescindere dalla sua dimensione attuale, per entrambe le fonti il differenziale a sfavore del Mezzogiorno si è ampliato nell’ultimo decennio. SVIMEZ calcola che in tale periodo il divario a svantaggio del Mezzogiorno si è ampliato dai 320 euro pro capite del 2008 ai 939 del 2018. È questa evidenza che la SVIMEZ ha cercato di stigmatizzare in questi anni, non per motivare un diritto alla restituzione, ma per denunciare la miopia di una politica nazionale che non ha certo seguito una regola di riparto territoriale delle risorse (anche di spesa corrente, si badi bene, non solo di investimenti come certificato sia dai CPT sia dalla Banca d’Italia) basata sui fabbisogni dei territori.
Negli anni della coperta corta dell’austerità, negando questa evidenza, è stato a lungo portato avanti il tentativo di dimostrare un presunto “sacco del Nord” misurato dal cosiddetto residuo fiscale delle regioni forti del Paese, la base “teorica” di un diritto alla restituzione da ristabilire riducendo i trasferimenti verso Sud.
La tesi è però caduta perché troppo evidenti erano i limiti di un rivendicazionismo che applicava impropriamente ai territori un concetto che invece andava applicato agli individui.
Ora che la coperta si allunga grazie alle nuove risorse europee in arrivo per la ripartenza post-Covid, il tentativo di ribaltare le statistiche ufficiali per mostrare una distribuzione della spesa pubblica che avvantaggia il Mezzogiorno ritorna con la correzione della spesa pubblica con il costo della vita, un parente prossimo del residuo fiscale. L’unica via che consente all’Osservatorio CPI di dimostrare la tesi che “il Mezzogiorno riceve ogni anno cospicui trasferimenti pubblici dalle regioni a statuto ordinario più ricche, tutte del Centro-Nord”.
Con la richiamata nota la SVIMEZ intende chiarire, in linea con i precedenti interventi, che l’intensità della redistribuzione tra Nord-Sud e l’efficacia dei trasferimenti ai fini della riduzione dei divari territoriali non sono fenomeni necessariamente correlati. È questa perciò anche l’occasione per ribadire che la SVIMEZ non chiede più spesa pubblica “a prescindere”. La vera questione risiede nella qualità oltre che nella quantità della spesa, a livello nazionale e a livello locale. Privarsi di una fotografia completa dell’esistente, chiudere gli occhi sull’evidenza, vorrebbe dire rinunciare ad un patrimonio informativo fondamentale per delineare strategie di intervento in grado di aumentare la coesione sociale e allo stesso tempo di valorizzare le aree di crescita potenziale esistenti nel Paese.