La crisi della globalizzazione

La globalizzazione, scrisse uno dei suoi primi teorici, è connessa ad una “compressione della coscienza del mondo che appare come un tutto”, per usare proprio la frase di Roland Robertson nel suo testo del 1992, agli albori di questo fenomeno di integrazione mondiale .
L’idea della compressione dello spazio-tempo politico ed economico appartiene anche alla più recente filosofia francofona, con Baudrillard, che parla di “accelerazione dell’interdipendenza” e della costruzione attuale di una “iperrealtà”.
Vedremo come tutte queste osservazioni sono parziali, ma comunque utili avvicinamenti al fenomeno della mondializzazione nel suo complesso.
In effetti, la diffusione dei media nel mondo, quei sistemi di informazione che ormai uniscono quasi simultaneamente il Primo e il Terzo Mondo, è stato il primo elemento visibile ed evidente del fenomeno globalizzante.
In primo luogo, si sono sviluppate molte nuove agenzie di informazione con un global reach, ma soprattutto hanno creato, agenzie come AP, Reuters, FrancePresse, UPI ed alcune altre, una percezione del mondo ben precisa.
Si tratta, qui, di una visione delle regioni globali che vengono definite come, nel caso del Sud del Mondo, quali “corrotte”, oggi anche come strutturalmente “instabili”, oppure come aree in preda al jihad globale.
Che riguarda alcune aree e si diffonde selettivamente in altre.
Il jihad è solo il tentativo, manu militari, di esercitare una egemonia mondiale da parte del mondo islamico sunnita.
E il jihad della spada appare, guarda caso, quando si tratta, per l’Islam sunnita, di penetrare alcune aree o di destabilizzare le zone in cui si esercita il potere degli occidentali, dei “sionisti”, dei vari nemici interni del Paese sunnita che utilizza questi cavalieri di ventura islamisti.
Si tratta di mezze verità, quelle della propaganda ufficiale, ma che determinano una percezione del pubblico che è, per la prima volta al mondo, globale.
Una propaganda che, poi, compone la percezione (completa) delle classi dirigenti .
La globalizzazione informativa permette un condizionamento dal basso, di massa, continuo e tale da costruire l’intero spazio delle alternative possibili.
La propaganda oggi satura tutto lo spazio informativo.
Così come nel giornalismo non vi è più differenza, oggi, tra narrazione, divertimento e informazione, e abbiamo l’infotainment, così, in politica estera, non è più possibile una visione alternativa che non sia quella della rivolta antiglobalista, che è, naturalmente, sbagliata.
I tratti della nuova “cultura globale” sono quindi: 1) la Relativizzazione, ovvero la sottoposizione degli standard nazionali a criteri sovranazionali, 2) l’Emulazione, che avviene quando i Paesi “meno fortunati” tendono a imitare le ricette socio-economiche e gli stili di vita presenti nel Primo Mondo, 3) la Glocalizzazione, ovvero la differenziazione, interna tra le nazioni, tra gruppi più o meno integrati nel mercato-mondo e nella ideologia-mondo, 4) l’Interpenetrazione, ovvero il nesso sempre più stretto tra aree del mondo non omogenee.
Non c’è più un Paese integro, in Europa, obiettivo di una guerra geostrategica dentro il fenomeno globalizzante: la Spagna ha la Catalogna in fase di secessione, l’Italia ha una spaccatura sociale fortissima e la questione dell’immigrazione, la Germania subirà il fascino del Gruppo di Visegrad e della sua “democrazia forte”, la Gran Bretagna ha avuto la Brexit (di cui parliamo nel libro) e la secessione scozzese, la Francia ha ancora un governo forte ma ha una situazione sociale durissima, l’Euro è contestato da più parti e, comunque, potrebbe non essere in futuro l’opzione preferita della Germania.
Nulla è senza guerra, potrebbe ripetere oggi un Eraclito che vivesse in Europa nel 2018.
Come è nato tutto ciò, la spinta alla fine delle frontiere?
Tutti risponderanno che la globalizzazione deriva dalla “caduta del Muro di Berlino” .
E’ solo in parte vero.
Fin dai primi anni ’80, in corrispondenza di una rivoluzione nella divisione internazionale del lavoro criminale, insieme all’avvento delle droghe di massa e tramite la parziale apertura dell’Asia e del Terzo Mondo alle economie illecite, la liquidità delle Organizzazioni Criminali Internazionali viene, all’ottanta per cento, trattata sui mercati internazionali .
La prima globalizzazione è quindi quella della finanza criminale, che inizia formalmente con l’apertura della Borsa di Londra ai capitali asiatici, in previsione del passaggio di Hong Kong alla Cina, passaggio che avverrà ufficialmente nel 1997 .
In Italia le organizzazioni criminali sviluppano nuovi canali con l’Est europeo e con l’Asia sudorientale, che trasformano la tradizione localista delle mafie e le arricchiscono.
Spesso, molti capitali illeciti arrivarono a sostenere, nel nostro Paese, attività e imprese lecite; e duro fu il rientro verso un equilibrio più sano della nostra finanza.
Secondo alcune fonti, il totale dei capitali “lavati” nelle varie Borse Valori è oggi di almeno 120 miliardi di Usd ogni anno.
La liquidità del crimine sostiene, come in una operazione alchemica, le imprese legali e le finanze degli Stati. Eccola, la vera globalizzazione che funziona, la più antica.
Quindi, uno dei veri fini della globalizzazione è stato quello di confondere, e quindi legalizzare, la finanza “nera” con la “grigia”, unendole alla “bianca”.
Sul piano geopolitico, la globalizzazione è stata la fase in cui si è ridisegnato il mondo periferico per mezzo delle guerre “umanitarie”, nate, nell’immaginario obbligatorio dei mass-media, per proteggere una etnia o una nazione dai “cattivi” che volevano distruggerla.
La narrazione diviene qui, direttamente, azione politica: per esempio, la bella ragazzina, dagli occhi straordinariamente azzurri, che sulla copertina di TIME, chiama alla guerra per liberare l’Afghanistan.
Prima c’erano stati i poveri kosovari che vengono terrorizzati dalla guerra, ovvero dalla “pulizia etnica” dei serbi; ma qui si dimenticano volontariamente le azioni precedenti dei kosovari contro le comunità serbe .
Si creano staterelli impossibilitati a sostenersi senza la finanza internazionale, che ha appunto tra i suoi obiettivi quello di vendere denaro a chi non lo potrà mai ripagare, per poi riciclare l’impagato con nuovi nomi e titoli, che andranno alla clientela dei Paesi maggiori.
Una economia del debito oggi determina spesso i rapporti tra Stati primari e nazioni periferiche.
Ecco: questo libro è nato proprio per studiare la verità effettuale della cosa, per dirla con Machiavelli, nella politica internazionale e nella geopolitica attuali, fuori dalle categorie che oggi sono maggiormente diffuse tra gli analisti.
Categorie valoriali, ideologiche, superficiali, inesistenti nel reale.
Inoltre, questo Volume studia, certamente con particolare interesse, i punti di rottura, le discontinuità geopolitiche, i meccanismi di quella che potremmo chiamare reverse globalization, ovvero quei sistemi di chiusura dei mercati e dei sistemi politici che costellano i bordi della globalizzazione, i suoi territori rispetto alle aree contestate o le zone di sempre più difficile integrazione nel mercato-mondo .
Eccoli, i punti di rottura della globalizzazione: asia Centrale, con la rivolta islamica nello Xingkiang, futuro asse di rottura della Cina Popolare, il confine himalayano dell’India e quello tra India e Pakistan, il confine tra Polonia e Ucraina, quello tra Ucraina e Georgia, l’area iniziale del Circolo Polare Artico, obiettivo primario di Cina e Russia, le zone dei Tre Fiumi in America Latina, la Patagonia, la linea divisoria invisibile tra Europa carolingia e Europa mediterranea.
Le faglie, come vedrete in questo Volume, sono molte, e ancora più complesse di quelle che Vi ho sopra indicato.
C’è appunto quella, che studiamo con attenzione, della Ucraina e della Georgia, in cui la tettonica della UE e degli USA si scontra, con i conseguenti terremoti, con l’area strategica primaria, a sud, della Federazione Russa.
C’è anche, in questo nostro testo, la geofinanza dei nessi tra Cina Popolare e Russia, una relazione che sarà destinata a rivoluzionare gli equilibri monetari globali, e qui si tratta di una finanza diretta dalla strategia globale.
Mentre i perdenti della globalizzazione, ovvero gran parte degli occidentali, oggi, pensano ancora con le vecchie categorie: l’economia che domina la politica .
Oggi, chi sta vincendo la lotta per la globalizzazione pensa prima in termini geopolitici, poi con i corrispondenti dati economici.
Altra faglia che abbiamo ricordato è quella tra India, Pakistan e Cina.
Nuova Delhi sta acquisendo una forte cultura identitaria, che è l’antidoto psicopolitico alla globalizzazione, la quale è, lo abbiamo visto, una ideologia prima che un fatto.
Le note sul cambiamento della monetazione in India che trovate in questo volume sono significative, a questo riguardo.
Una faglia sino-indiana che potrebbe essere un asset per gli Stati Uniti, che vogliono regionalizzare la Federazione Russa e la Cina; ma questa è una spada a doppia lama, poiché Nuova Delhi compra armi da Mosca ed è entrata nel 2017 nella Shangai Cooperation Organization, di cui qui parliamo spesso, che è la NATO filo-cinese dello Hearthland centro-asiatico.
La Russia ha una sua geopolitica specifica, molto raffinata, che è diventata prassi strategica con il progressivo rafforzamento di Vladimir Putin nello Stato e nella società russe.
Mosca è entrata in Siria, e in questo volume ne parliamo spesso, in primo luogo per salvare il suo accesso al Mediterraneo, che avrà un grande futuro nei prossimi anni, poi per bloccare la banale collezione di “primavere arabe” organizzate dagli USA e per riprendersi così, grazie anche alla vittoria delle armi russe, una buona fetta di Medio Oriente.
Un vice-direttore della CIA ha confessato che le “primavere arabe” erano il tentativo, così egli dice, di “mettere le masse arabe contro Al-Qaeda”.
La politica araba (e anche israeliana, oggi, con Putin al potere) è, da sempre, una dimensione irrinunciabile per Mosca.
Fin dal XX Congresso del PCUS, nel 1956, la Russia, allora nelle arcaiche vesti dell’URSS, poneva al centro dei suoi interessi internazionali la sua politica di rapporto primario con le “borghesie nazionali” arabe e del resto del Mediterraneo.
Era questo il punto strategico essenziale dell’Unione Sovietica post-staliniana.
I russi non possono, anche oggi, non essere in continuità strategica con tutto il mondo mediorientale, per la loro sicurezza nei confronti delle loro aree islamiche centroasiatiche e per controllare il nesso geoeconomico e militare con l’Europa.
Senza rapporto con l’Oriente arabo e ebraico non è possibile alcuna libertà di manovra russa, non si tratta solo della vecchia tradizione zarista dell’”arrivo di Mosca nelle acque calde”.
Se, come affermava Brzezinsky, l’obiettivo geopolitico degli USA è quello di evitare la continuità tra penisola eurasiatica e Russia, l’obiettivo geopolitico di Mosca è quello di aggirare i sistemi di interdizione NATO e USA sul bordo della penisola eurasiatica e arrivare con sicurezza e senza alcuna interdizione al Mediterraneo che sarà, in futuro, il “Mare Centrale” del globo.
Ecco, il Mediterraneo.
E’ oggi il punto di sutura tra l’Europa Meridionale e il Maghreb, l’unica area dalla quale potrà ragionevolmente venire, in futuro, una riscossa araba contro il jihad della spada e il Mediterraneo è anche il nesso tra l’UE e il sistema caucasico.
Sarà, poi, il Mare Nostrum, uno dei punti di arrivo della Belt and Road, l’iniziativa cinese che metterà in comunicazione la Cina, appunto, l’Asia Centrale, l’Europa del centro-nord (Duisburg) e quella del meridione mediterraneo (Atene), nel quale arriveranno numerose nuove linee di comunicazione sia dal Nord della UE e dell’Europa, dalla Gran Bretagna come dalla Svezia, che da Est.
Una iniziativa, la “Belt and Road”, che copre 65 paesi e interessa 800 milioni di persone, un tentativo immane di evitare la permanenza di una unipolarità Usa e, soprattutto, questa iniziativa è il tentativo di mantenere, per la Cina, una economia export-led, trainata dalle esportazioni.
E, peraltro, si tratta, per la Cina, di espandere, con le importazioni favorevoli, il mercato interno, evitando sia la crisi ecologica che quella monetaria.
La Cina è, lo noterete, molto studiata in questo volume.
Quella Cina di Xi Jinping che, mantenendo e sviluppando i concetti di governo dei predecessori, sta costruendo un Paese che si vuole in un breve futuro leader mondiale, dopo aver osservato e studiato la crisi finanziaria, commerciale e soprattutto produttiva, degli Usa.
La Cina vuole eliminare il ruolo unipolare degli Usa, è questo l’obiettivo.
Per realizzarlo, è interessata ad un buon rapporto con l’Europa, un rapporto che non sia solo economico e finanziario, ma anche politico e strategico.
Una Cina che lotta oggi,con estrema durezza, e solo grazie a Xi, contro la corruzione; e che ricostituisce un potente e omogeneo Partito Comunista quale arbitro unico della società e dello Stato.
Xi Jinping come Mao?
Forse, come mi dicono molti amici cinesi, che ben conoscono la struttura politica del loro Paese, ma Xi è ancora più potente, oggi, di quanto Mao Zedong non lo fosse all’apogeo del suo dominio sul PCC e sul Paese.
Una globalizzazione rigida, quella attuale: gli Stati si rafforzano, gli eserciti divengono sempre più potenti, niente ci deve far escludere lo scoccare di una grande guerra regionale o di un lungo e forte attrito tra due potenze primarie.
Le società civili perdono di ruolo e di forza, se non in un multicolore ed estenuato e disarmato Occidente, mentre in tutti i Paesi che stanno vincendo la grande battaglia della globalizzazione si rafforza lo Stato, si accentrano i poteri, si ragiona per logiche di potenza e di forza.
La guerra è vicina, sia che essa sia una “strategia indiretta”, sia che lo scontro futuro riguarderà le tecniche militari convenzionali.
Altro problema che abbiamo discusso nel nostro Libro è, in tutte le aree geopoliticamente rilevanti del globo, oggi, lo sviluppo di una cultura politica che, nei Paesi occidentali, porta fino al parossismo quella che Lenin chiamava “l’estinzione dello Stato”.
Mentre, lo ripetiamo, nei paesi che stanno vincendo la guerra per la globalizzazione, la forma-Stato si rafforza, si verticalizza (basti pensare alla “verticale del potere” di Putin) e determina l’economia e la finanza, fuori da ogni mantra ideologico proveniente dall’Occidente.
Controllo della moneta, controllo dell’import-export, accumulazione di divise forti e di oro, l’insorgere della guerra ibrida tra le forze russe e dei loro alleati e di un comando NATO, sempre per la “guerra ibrida”, in Finlandia.
Ecco la dialettica del futuro tra vincitori e vinti, tra chi costruisce la sua forza e chi, volontariamente, la abbandona.
Nuovi modi di fare guerra, quindi, che integrano economia, cultura, società, tradizionali scontri armati e scontri asimmetrici tra gruppi di partigiani, una guerriglia che si trasforma in guerra.
Ecco, pensare oggi la guerra, per parafrasare il titolo di un vecchio libro di Raymond Aron, vuol dire ragionare su tutto lo spettro delle relazioni internazionali.
Diversamente da quello che accadeva anche fino a pochi anni fa.
E che dire di Israele? Lo stato ebraico è spesso al centro delle nostre analisi, anche in questo libro.
Israele è in una fase estremamente delicata; e non solo per gli effetti della guerra in Siria.
Lo stato ebraico è in un momento particolare poiché sta passando da potenza regionale a polo di attrazione mediterranea e, in futuro, globale.
In Africa, Gerusalemme sta organizzando, per l’anno in corso, un summit israelo-panafricano, asse di un futuro sviluppo economico di quel Paese nel continente nero.
Quindi influenza, egemonia in alcune aree africane, espansione dei commerci ma anche delle alleanze strategiche di Israele.
Il governo di Gerusalemme, poi, ha avuto finora buoni rapporti militari e di intelligence con Mosca durante la guerra in Siria, che, ve lo faccio notare oggi, non è affatto conclusa; e sta accettando la Federazione Russa come “onesto mediatore” in Medio Oriente, dopo che l’America di Obama prima e ora di Trump si allontanano, ingenuamente, dai poli in cui si decide la distribuzione futura del potere mondiale.
E il Medio Oriente è uno di questi poli.
La Cina è intervenuta talvolta, anche militarmente, in Siria, sarà la principale finanziatrice della ricostruzione, Israele sta poi diventando una piccola potenza petrolifera e, soprattutto, gaziera, mentre il mondo sunnita cambia radicalmente con il passaggio del testimone all’interno della famiglia reale saudita e Washington sta a guardare, per non parlare qui del convitato di pietra, la povera Europa.
Ecco, in breve, i movimenti tellurici ai quali stiamo assistendo.
Il mondo oggi cambia a ritmi straordinari, le tecnologie distribuite stanno trasformando il modo di produrre e di accumulare in Occidente, si sta modificando la composizione geopolitica del Terzo Mondo e noi, qui, a leggere la cartina geografica con le idee dell’ottocento.
Non è questo lo stile intellettuale del nostro volume.
E’ qui, in fondo, la chiave di lettura di questo testo: la descrizione, spesso attenta e analitica, delle trasformazioni dei tanti scenari regionali del nostro mondo, la lettura dei modelli culturali che si stanno imponendo, buoni o cattivi che siano e, sullo sfondo, la fine dell’Occidente come entità egemonica, sia in campo economico che in quello culturale e, direi, psicologico.

Giancarlo Elia Valori