La crisi e la distruzione del Banco di Napoli: contesto economico, dinamiche istituzionali e conseguenze per il Mezzogiorno

245
In foto Pietro Spirito
di Pietro Spirito
1. Introduzione
Il Banco di Napoli, fondato nel 1539, è stato una delle più antiche istituzioni bancarie d’Europa e un pilastro economico del Mezzogiorno. La sua crisi negli anni Novanta, culminata con la cessione alla Bnl e poi alla incorporazione in Banca Intesa, rappresenta una cesura storica nel rapporto tra finanza e territorio in Italia.
L’evento va letto non solo come una vicenda gestionale, ma come esito di un processo sistemico di trasformazione del capitalismo finanziario nazionale, che ha progressivamente marginalizzato le strutture economiche meridionali.
2. Contesto storico ed economico
Negli anni Ottanta e Novanta, il sistema bancario italiano subisce un processo di liberalizzazione e privatizzazione in linea con le direttive comunitarie e la preparazione all’ingresso nell’euro.
Il Banco di Napoli, storicamente orientato a una funzione di intermediazione territoriale e di sostegno pubblico all’economia meridionale, si trova in difficoltà nel nuovo ambiente competitivo, caratterizzato da:
– un’economia meridionale frammentata e a bassa produttività;
– la riduzione del credito agevolato e del ruolo delle banche pubbliche;
– l’emergere di grandi conglomerati bancari del Nord, più capitalizzati e con maggior accesso ai mercati finanziari internazionali.
Nel 1994, con il crollo del bilancio e l’aumento apparente dei crediti deteriorati, il Banco entra in una fase di crisi sistemica che porta al suo commissariamento.
3. La crisi e la ristrutturazione (1994–1997)
La crisi esplode ufficialmente nel 1994, quando vengono evidenziate perdite per oltre 2.000 miliardi di lire.
Il Governo interviene con il Decreto-Legge n. 588/1996, che istituisce la Società per la Gestione di Attività (SGA), una bad bank destinata a rilevare i crediti deteriorati del Banco per consentire la continuità dell’attività bancaria.
La ristrutturazione prevedeva:
– la scissione tra crediti buoni e sofferenze;
– una ricapitalizzazione pubblica temporanea;
– la successiva privatizzazione e vendita del Banco di Napoli.
Nel 1997, dopo un transito in Bnl che consente una generosa plusvalenza all’istituto romano, Banca Intesa acquisisce la maggioranza del capitale, incorporando progressivamente la rete e trasformando il Banco in un semplice marchio commerciale.
4. Conseguenze economiche e sociali per il Mezzogiorno
Le conseguenze della crisi e della successiva acquisizione sono molteplici:
1. Depotenziamento del sistema creditizio meridionale, con la perdita dell’unico grande polo bancario del Sud.
2. Drenaggio dei capitali verso il Nord, dove venivano prese le decisioni di allocazione degli impieghi.
3. Riduzione dell’accesso al credito per le PMI meridionali, penalizzate da criteri di rating rigidi.
4. Dissoluzione del capitale umano locale, con la chiusura di centri direzionali e la perdita di funzioni strategiche.
5. Svuotamento identitario, poiché il Banco di Napoli rappresentava un simbolo di appartenenza economica e culturale del Mezzogiorno.
5. Lettura politico-istituzionale
Secondo numerosi studiosi (De Cecco, Barca, Cafiero, Viesti), la vicenda del Banco di Napoli rientra in una logica di ricentralizzazione del potere finanziario.
Le politiche di salvataggio e privatizzazione hanno operato come strumenti di trasferimento di ricchezza e potere decisionale dal Sud al Nord, in un quadro di asimmetria strutturale.
Il Banco non fu “salvato” per essere rilanciato, ma ristrutturato per essere assorbito, in un processo di concentrazione bancaria che ha favorito i grandi gruppi nazionali.
6. I soggetti che hanno tratto vantaggio dalla crisi
L’analisi dei beneficiari della crisi del Banco di Napoli permette di comprendere le logiche redistributive implicite del processo:
a. I grandi gruppi bancari centro settentrionali
Prima Bnl e poi Banca Intesa (successivamente Intesa Sanpaolo) furono le principali beneficiarie dell’operazione: Intesa ottenne un marchio di forte riconoscibilità territoriale, una vasta rete di sportelli nel Mezzogiorno e un ingente patrimonio immobiliare a costi estremamente contenuti.
Altri istituti, come Sanpaolo IMI e Unicredit, trassero vantaggio indiretto dall’indebolimento del Banco, consolidando il loro predominio nel mercato nazionale.
b. Lo Stato e il Ministero del Tesoro
Lo Stato, pur avendo sostenuto l’onere iniziale della ristrutturazione, ottenne un risultato politicamente rilevante: la stabilizzazione del sistema bancario italiano in vista dell’ingresso nell’euro e la riduzione dell’esposizione pubblica.
La creazione della SGA, rimasta poi controllata dal Tesoro, generò nel tempo rilevanti profitti: grazie alla gestione dei crediti deteriorati, la SGA ha recuperato valori molto superiori alle stime iniziali, producendo utili per le casse pubbliche negli anni successivi (oltre 3 miliardi di euro cumulati tra il 2000 e il 2020).
c. Gli advisor e gli intermediari della privatizzazione
Società di consulenza, studi legali e istituzioni finanziarie coinvolte nella valutazione degli attivi e nella collocazione del Banco di Napoli sul mercato trassero benefici economici significativi dalle commissioni di intermediazione.
La gestione tecnica della crisi divenne una fonte di profitto per soggetti estranei al territorio.
d. I nuovi centri finanziari del Nord
Le sedi direzionali di Milano e Torino ottennero un accrescimento di peso politico-finanziario.
Le decisioni creditizie e industriali riguardanti il Sud vennero assorbite nei processi decisionali settentrionali, accentuando la polarizzazione territoriale.
e. I detentori di capitale speculativo
Alcuni fondi d’investimento e operatori privati, attratti dalla sottovalutazione degli attivi residui del Banco, realizzarono plusvalenze rilevanti nella fase successiva alla privatizzazione.
In particolare, l’acquisto di pacchetti azionari e di crediti a prezzo scontato permise rendimenti elevati a investitori istituzionali non meridionali.
7. Conclusioni
La crisi del Banco di Napoli rappresenta un caso emblematico di redistribuzione territoriale del potere economico attraverso meccanismi finanziari.
Il Mezzogiorno non solo perse il suo principale strumento di credito, ma vide trasferirsi verso il Nord la gestione dei propri risparmi e la capacità decisionale sulle politiche di investimento.
In questa prospettiva, i “vincitori” della crisi furono i soggetti istituzionali e finanziari che consolidarono il controllo sul mercato nazionale, mentre i “perdenti” furono i territori e le imprese del Sud.
A distanza di trent’anni, il caso del Banco di Napoli mostra come l’assenza di istituzioni finanziarie autonome e radicate nel territorio costituisca uno dei limiti strutturali allo sviluppo endogeno del Mezzogiorno.
Bibliografia essenziale
De Cecco, M. (1997). La crisi del Banco di Napoli e la fine della banca territoriale italiana. Il Mulino.
Barca, F. (1999). Compromesso senza riforme. Il capitalismo italiano tra economia e politica. Donzelli.
Cafiero, S. (2001). Banche e Mezzogiorno: il caso Banco di Napoli. Laterza.
Viesti, G. (2003). Abilità e capitale: il Mezzogiorno tra finanza e industria. Donzelli.
Trento, S., & Vaciago, G. (2000). La ristrutturazione del sistema bancario italiano. Il Mulino.
Rinaldi, A. (2010). La storia del Banco di Napoli: finanza e potere nel Mezzogiorno. Carocci.