Recentemente ho incontrato, alla Columbia University di New York, moltissimi giovani, capaci e preparatissimi, che erano molto preoccupati per il futuro del loro Paese, dell’Italia.
Oggi, l’ISTAT ci dice che, se moltiplichiamo il costo della formazione per il numero di ricercatori italiani all’estero, siamo oltre il miliardo di euro l’anno di spesa.
Sono circa tremila l’anno, i ricercatori “in fuga”, mentre perdiamo il 16,2% di ricercatori formati in Italia; ma riusciamo ad attrarre solo il 3% degli scienziati di altri Paesi.
Università vecchie, camorre accademiche, concorsi secolari, stipendi ridicoli. Ecco tutto.
Il programma di “ritorno dei cervelli”, inaugurato dal governo nel lontano 2001, ha convinto appena 488 ricercatori, di cui meno di un quarto ha rinnovato la permanenza in Italia per i successivi quattro anni.
Un ragazzo mi ha detto, alla Columbia, che “occorre fare una rivoluzione”. E’ vero, ma basta mettersi d’accordo sul significato.
Se c’è un Paese dell’Occidente in crisi strutturale è il nostro. E sta arrivando la recessione. L’indice attuale (Purchasing Managers Index) che misura l’attività manifatturiera, è al minimo degli ultimi quattro anni, in Italia come altrove.
Si prevede quindi una crisi serissima dell’intera eurozona, mentre l’Italia distribuirà un Pil che, ormai, non c’è più.
E’ ovvio, quindi, che aumenterà fortemente la cassa integrazione, e allora scoppierà subito il debito pubblico, già sotto pressione.
L’IVA non potrà non aumentare per 12,5 miliardi di euro, una “clausola di salvaguardia” che non è possibile sostenere altrimenti.
E, se aumenta l’IVA, ovvero 23,1 miliardi per il 2020 e 28,7 miliardi nel 2021, ciò implica naturalmente un sovra-costo di 1200 euro a famiglia per anno, secondo i calcoli di alcuni centri di ricerca.
E i giovani saranno i più penalizzati, dati i salari minimi che, normalmente, guadagnano.
Quando li guadagnano.
Ma lo sanno anche i bambini che, se aumenta l’IVA, diminuisce la propensione all’acquisto, e questo proprio in fase di recessione.
Masochismo economico ma, forse, inevitabile, se si sbaglia, come oggi accade, la composizione del bilancio pubblico.
E poi è arrivato, in un contesto di previsioni del tutto negative sulla nostra economia, il rapporto dell’OCSE dell’aprile 2019.
I temi sono noti, visto che i mass-media ne hanno trattato ampiamente, ma è bene riprenderli analiticamente.
L’OCSE raccomanda, soprattutto, di porre mano alle riforme istituzionali, economiche e sociali, che sono state ormai dibattute negli ultimi anni.
Ovvero: semplificazione dura e immediata dell’Esecutivo, forse anche un monocameralismo, ma non nel senso regionalistico della vecchia proposta di Renzi, riforma fiscale e semplificazione regionale: due/tre macroregioni, poi basta.
Ma tagliare le unghie finanziarie alle Regioni è un problema essenziale e, oggi, tale da rimettere ancor in sesto i bilanci pubblici.
Poi, l’OCSE consiglia un Piano di Bilancio a Medio Termine nel quadro del Patto di Crescita UE.
Ovvero, si propone un programma di correzione degli equilibri annuali rispetto alle regole di Maastricht e agli altri trattati finanziari europei.
Ma con tagli di bilancio, che non si sa se saranno possibili.
Bene: è comunque vero che, secondo la retorica dell’attuale governo, si tratta di regole draconiane, per l’Italia.
Ma noi dobbiamo rifinanziare un colossale debito pubblico, e al tasso migliore, quindi dobbiamo solo seguire il criterio del grande Nereo Rocco: “palla lunga e pedalare”.
Controllo della vendita dei titoli di debito, riduzione della spesa pubblica, analisi della sua efficacia.
Prima entriamo, senza pseudo-teorie economiche da ridere, nell’area di sicurezza dell’Euro, meglio sarà.
L’OCSE, poi, ci chiede misure a favore della produttività. Ottima proposta ma, in Italia, la produttività è aumentata solo dello 0,14% annuo dal 2010 al 2016. Ovvero, niente.
E qui si ritorna al tema della scienza e dell’innovazione, che noi mandiamo quasi integralmente fuori d’Italia, con i giovani ricercatori che la producono.
Causa n.1: l’eccessiva frammentazione delle imprese, che non riescono, da piccolissime, a investire in innovazione, ma si dirigono verso la specializzazione progressiva in produzioni tradizionali, a basso contenuto tecnologico.
Che verranno presto spazzate via dalla concorrenza internazionale.
In Germania, lo ricordiamo, la disoccupazione tra i laureati è del 2-4%, in Italia siamo tra l’8% e il 13%.
In Italia, poi, ci sono il doppio di laureati in discipline genericamente umanistiche, di quanto non accada in Germania.
E la quantità, anche qui, no favorisce la qualità. Anzi.
Altra richiesta dell’OCSE è quella di applicare pienamente la riforma delle banche popolari e cooperative.
Qui il problema è davvero spinoso: certamente, le BCC devono essere messe in grado di reggere il confronto con le altre tipologie bancarie.
Ma, qui, aleggia soprattutto l’impressione che molto del capitale delle BCC (i quotisti sono oggi ben 1,3 milioni, in Italia) sia fortemente desiderato da banche più grandi e, oggi, meno capitalizzate.
Le banche italiane avevano la Vigilanza della Banca d’Italia quando le nostre concorrenti europee si mettevano nelle mani delle normali società di consulenza.
Ci sarà quindi un buon motivo per cui la rete delle BCC ha successo, mentre quella delle normali banche ha una capacità di allocazione dei capitali minore?
Qui, ovviamente, l’OCSE vuole in sostanza la ricapitalizzazione delle banche italiane “con altri mezzi”, ovvero con la liquidità delle BCC, che è mediamente superiore.
Il 63% delle banche italiane a rischio elevato è, guarda caso, a favore della riforma delle BCC.
Altro elemento-chiave delle raccomandazioni OCSE è l’abolizione della “quota 100” per i pensionamenti.
Certo, la riforma Fornero è stata la grande “cassa” dello Stato, dal governo di Mario Monti fino ad oggi.
L’impatto di “quota 100” è però significativo, sui conti pubblici, se si considera il deficit previsto (17 miliardi) e, poi, con questa normativa si rischia un esodo anticipato di personale, che la Pubblica Amministrazione può sostituire solo in parte, ma i Comuni per niente.
A riforma Fornero invariata, nei prossimi due anni le uscite dalla Pubblica Amministrazione sarebbero state 500.000, oggi invece la quota 100 costa un miliardo per le sole PMI, per quel che riguarda la consegna del TFR, ma, con la “quota”, arriviamo a 335mila pensioni in più del previsto.
La spesa, allora, lieviterà a 4,7 miliardi e non si sa dove si possano trovare.
Per l’OCSE, poi, la “quota 100” è una ingiustizia generazionale, visto il diverso trattamento tra le varie fasce di pensionati.
Né sembra credibile l’idea che ogni posto lasciato libero da un pensionato venga ipso facto riempito da un giovane.
Qui, siamo all’applicazione pensionistica della voodoo economics che George Bush sr. attribuiva alle idee sul fisco di Ronald Reagan.
Certo, la “quota 100” svuoterà ospedali, scuole, tribunali, Comuni.
E non ci sono alternative reali e poco costose per risolvere la questione.
Poi, come è naturale, l’OCSE consiglia di ridurre i condoni, ma chiede anche una cosa molto interessante: migliorare il coordinamento degli enti che si occupano di fisco.
Qui il problema è doppio: organizzare gli Enti, certamente, ma anche semplificare le norme.
Per esempio, si potrebbe delineare una tipologia di fisco standard per ogni attività, e verificare i dati dei contribuenti in relazione a questo benchmark fiscale.
Senza semplificazione fiscale, non ci sarà mai equità fiscale. Aumenta oggi la tassa sulle srl del 14%, ma diminuisce il regime forfettario, mentre aumentano i minimi imponibili. Tutto bene ma, se non si pone mano alla fiscalità sulle persone fisiche, ci sarà sempre un grande problema di ingiustizia fiscale.
Per gli investimenti pubblici, che l’OCSE richiede, occorre fare riferimento al mio vecchio amico Paolo Savona: mettere da parte 50 miliardi di risparmio tra BTP e altri titoli, per fare investimenti nelle infrastrutture.
Era la sua ipotesi di lavoro, messa subito in frigorifero, dato che i 5Stelle, quando sentono parlare di infrastrutture da costruire, si ritraggono impauriti.
E ci sarebbe stato anche il minibot, la moneta fiscale che è anche permessa dai regolamenti UE e crea investimenti e crescita.
Non è stato possibile, e questo disegna già tutta la limitatezza concettuale e pratica dell’attuale governo.
Anche qui, niente. Niente fantasia, ma soprattutto niente conoscenza tecnica dei problemi.
E il reddito di cittadinanza? Si può fare, anche se è caro e, probabilmente, inutile.
L’OCSE, e anche noi, pensiamo che si tratti di un aumento artificiale del reddito minimo da lavoro che, peraltro, molte piccole imprese non accetteranno.
E preferiranno no assumere che pagare un salario concorrenziale a quello di cittadinanza.
E, quindi, arriveremo facilmente ad un sostegno di massa alla disoccupazione a lungo termine, che sarà tale da allontanare dal lavoro produttivo molti soggetti che guadagnerebbero di meno del salario “sociale”.
Ma la povertà di massa comunque esiste, frutto, soprattutto, del fatto che, dal 1999, il 25% del nostro sistema produttivo se ne è andato all’estero.
L’OCSE vuole poi ridurre il “cuneo fiscale”.
Ottima idea che, in parte, è già presente nella attuale legislazione fiscale.
Ma se, per esempio, i lavoratori potessero avere una buona quota del loro salario senza cuneo, in cambio di una normale dichiarazione dei redditi?
Certo, ci sono evidenti pericoli, ma gli imprenditori guadagnerebbero una bella fetta di costi fiscali-assicurativi; e i dipendenti pagherebbero le loro tasse autonomamente.
Altro problema da discutere è la proposta OCSE sull’abbassamento progressivo del Reddito di Cittadinanza e, nel contempo, di introdurre un sussidio per i lavoratori occupati a basso reddito.
Buona idea, ma astratta: chi ha un basso reddito da lavoro è, in linea di massima, impossibilitato a investire sulla sua formazione.
Poi, il sussidio a chi lavora favorisce la tendenza dei “padroni” a abbassare i salari e, quindi, genera effetti avversi, e costosi.
Meglio investimenti nel settore scolastico aperti ai lavoratori, o anche dei sostegni fiscali per accedere ai corsi di aggiornamento professionale organizzati dai sindacati.
Infine, l’OCSE ci pone di fronte ai nostri eterni problemi: il PIL pro capite è al livello del 2000, ovvero al livello di quando abbiamo introdotto il trauma n.1, l’Euro, ma che è comunque nettamente inferiore al livello pre-crisi.
Ogni ciclo negativo ci lascia quindi più poveri e meno industrializzati.
E, di conseguenza, meno capaci di far fronte alle nostre necessità sociali: la povertà, l’aumento del numero degli anziani, i giovani ricercatori che se ne vanno.
Sussidi ai lavoratori, dice l’OCSE.
Ma bisogna stare attenti: se si abituano gli imprenditori a pagare un prezzo “politico” per il salario, allora tutto il sistema salterà.
L’OCSE prevede un salario di sussistenza che vale il 70% del salario medio.
Ma basterà? E, comunque, dovrà essere collegato a un salario già attivo nelle imprese o, anche, nella Pubblica Amministrazione che, come sanno bene i ricercatori universitari, vive oggi di lavoro gratuito.
Ma, certamente, lo Stato deve farsi carico della crisi dei salari e integrarli con la riduzione del cuneo fiscale, con le tecniche che abbiamo accennato, e anche con fondi ad hoc per i settori produttivi più in crisi.
Certo, una operazione aggressiva, come quella che progettò Hjalmar Schacht, il banchiere di Hitler, con i titoli “MEFA”, che erano cambiali “private” esigibili presso le banche, non sarebbe una cattiva idea.
Qui, occorrerà avere molta fantasia, oggi le vecchie teoriche dell’”equilibrio” economico sono tutte saltate.
I fondi per lo sviluppo regionale, sempre per l’OCSE, devono poi sommarsi a quelli interni alle spese ordinarie. Ma oggi sono carenti entrambi. E dove sono i fondi per renderli efficaci?
Insomma, se abbandoneremo la attuale “fantasia al potere” e studieremo meglio i problemi, forse faremo qualche passo avanti.