La (Grande) Stranezza di Roberto Andò. Una mise en abîme dell’arte teatrale

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di Erika Basile

La Stranezza di Roberto Andò è una mise en abîme, che intreccia storie di esistenze parallele in un vortice di suggestioni, in cui persone e personaggi si incontrano e si confondono tra loro. È un film sulla creatività, su come nasce un’idea rivoluzionaria che stravolge il mondo della letteratura e del teatro. “Pirandello ci ha raccontato che ogni identità, ogni percorso verso il riconoscimento di sé è anche un po’ un’invenzione. – afferma il regista – E poi ci ha dato un’altra illuminazione: che, laddove la vita non è sopportabile o è mal sopportabile, noi possiamo inventarcene un’altra”. L’interpretazione misurata e intensa di Toni Servillo si esprime soprattutto in sguardi e silenzi densi di pathos e di emozioni trattenute, che rendono palpabili l’irrequietezza, l’inquietudine intellettuale e la curiosità del drammaturgo. Salvatore Ficarra e Valentino Picone alternano, con grazia, il registro comico e quello drammatico, recitando nei panni di Onofrio Principato e Sebastiano Vella: due becchini, che sono anche teatranti amatoriali, impegnati nella preparazione di uno spettacolo, La trincea del rimorso, ovvero Cicciareddu e Pietruzzu.
La scelta di far esprimere la maggior parte degli attori in dialetto siciliano (con sottotitoli), per il quale Roberto Andò si è avvalso della consulenza di un puparo, accentua negli spettatori la percezione di essere stati calati in un mondo e un tempo sospesi, completamente diversi. Già dalle prime immagini, siamo trasportati in una dimensione quasi fiabesca. La fotografia di Maurizio Calvesi restituisce un’atmosfera a tratti onirica, che cattura e favorisce una profonda immersione nella Sicilia del 1920: ingenua, intatta e incontaminata.
Pirandello, che da molti anni vive a Roma, torna sull’isola in occasione dell’ottantesimo compleanno di Giovanni Verga (Renato Carpentieri).
Arrivato a Girgenti (Agrigento), sua città natale, scopre che l’amata balia, Maria Stella, è appena morta. Volendo offrirle una degna sepoltura, entra in contatto con Nofrio e Bastiano. Da questo incontro scaturisce il susseguirsi di situazioni grottesche, che assumono valenza allegorica e suggeriscono nuove possibilità alla fervida mente del drammaturgo. In occasione del suo viaggio, egli comunica ai personaggi che gli vengono puntualmente a fare visita, la sospensione dell’udienza ad essi riservata ogni domenica mattina dalle otto alle tredici. Tuttavia, i fantasmi che abitano la sua mente lo seguono e gli si mostrano continuamente tra il sonno e la veglia. “Taliare troppo la luna fa venire i cattivi pensieri, come te lo debbo dire Luigi?” – gli ricorda la balia (Aurora Quattrocchi), in un’apparizione notturna – Quando eri picciriddu, ogni volta che t’acchianava la stranizza, t’appuiavi la testa sulle mie ginocchia. […] Ti conosco troppo bene. Lu sacciu che hai pena perché le idee non quagliano. Non riesci a scrivere la tua commedia”.
Sappiamo che, durante gli anni vissuti nella campagna del Caos, Maria Stella è stata uno dei suoi punti di riferimento affettivi, ma anche un serbatoio fecondo di favole e leggende, come quella del figlio cambiato. Avido di storie, da ragazzo, si recava spesso sia in tribunale, per assistere alle cause, sia nella Biblioteca Lucchesiana, dove il bibliotecario lo teneva aggiornato sulle vicende personali dei cittadini di Girgenti, tradimenti compresi. Ritroviamo alcuni di questi elementi, filtrati, nel lungomentraggio di Roberto Andò, che ci restituisce l’universo emotivo e il grembo culturale in cui si è formata la personalità di Pirandello, senza pedanteria, suggerendo numerosi spunti da elaborare. Quell’universo popolato da spiriti, fantasmi, streghe, anime e pensieri, che diventano carne e ossa, ha origine in una terra magica, dove civiltà diverse si sono avvicendate senza fondersi tra loro, lasciando ognuna la propria impronta: “Da qui, forse, tutto il malessere, tutta l’infelicità storica della Sicilia, il modo difficile d’essere uomo di quell’isola, e lo smarrimento del siciliano, e il suo sforzo continuo della ricerca d’identità”, come afferma lo scrittore e saggista Vincenzo Consolo.
Al centro della storia raccontata nel film, campeggia il rapporto complesso tra la realtà e la finzione, tra quello che si vorrebbe essere e quello che si è, tra la verità e la menzogna. Ma soprattutto il senso della vita, che Pirandello traduce nella costante ricerca di un’identità diversa da quella che ci viene assegnata e con cui ci muoviamo sul palcoscenico dell’esistenza. Nel gioco di specchi, nel quale i confini ontologici sono evanescenti e le forme illusorie, La Stranezza ci fornisce diverse chiavi di lettura per dipanare la matassa di significati che emergono durante la visione. Offrendoci, come sottolinea Toni Servillo, “un’avventura intellettuale, priva di intenti escatologici sul pirandellismo, che contiene un erotismo per la vita”. Un omaggio alla vita, dunque, e a un mondo, quello del circondario di Girgenti, che è stata fonte costante di ispirazione dell’opera di Pirandello.
La verità di eventi realmente accaduti si mescola a innesti fantastici in un susseguirsi di scene che, in modo divertito e leggero, ondeggiano continuamente tra la tragedia e la commedia.
Tutta la storia è costruita attorno a un perno: “Una stranezza, che è diventata quasi un’ossessione”.
Quell’ossessione che Pirandello confessa a Verga, dopo avergli mostrato in anteprima il testo del discorso che avrebbe tenuto in suo onore al Teatro Massimo Vincenzo Bellini di Catania. L’amico, amareggiato per essere stato dimenticato dall’Italia “ufficiale” e assediato dai pensieri che lo “tuppuliano soprattutto di notte”, lo mette in guardia: “Luigi mio, tu ti sei messo a camminare per una strada desolata, piena di pericoli. Una strada che nessuno conosce e non si sa neanche dove arriva. Tu hai messo una bomba sotto le fondamenta dell’edificio che noi con fatica abbiamo costruito: la realtà. E te ne stai lì, impavido, ma non sai più chi sei”. “Hai ragione, Giovanni, – gli risponde – a dire che non so più chi sono. Forse non l’ho mai saputo, neanche da ragazzo”. Quella “stranezza” trova compimento, pochi mesi dopo, in un’opera innovativa: Sei personaggi in cerca d’autore. In essa, si manifestano tutte le istanze della poetica pirandelliana: il teatro nel teatro, l’incomunicabilità, le maschere, la rottura della quarta parete, la questione dell’identità personale, la scissione dell’io – costituito da elementi distinti, che si possono scomporre e ricomporre in modi diversi – la contrapposizione tra ciò che siamo e ciò che appariamo, la pazzia intesa come rifiuto delle convenzioni sociali. Argomenti che creano un collegamento tra le riflessioni di Pirandello e quelle che, negli stessi anni, vengono elaborate nell’ambito della psicoanalisi.
È una vera e propria rivoluzione, accolta con sconcerto al Teatro Valle durante la sua prima rappresentazione, il 9 maggio 1921, da parte del pubblico, che si divide tra chi (una minoranza) ne apprezza l’originalità e chi ingiuria autore e attori, insultandoli: “Buffone! Manicomio!”. Tant’è che, nella fedele ricostruzione di Roberto Andò, vediamo Pirandello/Servillo allontanarsi sbigottito insieme alla figlia, spaventata e in lacrime, mentre, con un coup de théâtre, le ultime immagini ci riservano un finale spiazzante.
Pochi mesi dopo, a Milano, la pièce verrà applaudita senza riserve, per poi varcare la soglia dei più importanti teatri internazionali. E, nel 1934, “per il suo ardito e ingegnoso rinnovamento dell’arte drammatica e teatrale”, l’Accademia di Svezia assegnerà al drammaturgo il Nobel per la letteratura.
Egli ha espresso e messo in scena lo smarrimento, i turbamenti e l’alienazione dell’uomo moderno. Come Leonardo Sciascia (a cui il film è dedicato), Pirandello è stato uno scrittore di “cose” e non di “parole”. Entrambi hanno trovato la propria ispirazione nella vita e nella terra siciliana, misteriosa e piena di contraddizioni, “gran teatro del mondo”. Hanno pescato nel suo ventre e si sono addentrati nelle sue viscere.
Calati completamente nel loro tempo, hanno operato per il futuro, mostrando la capacità di precedere gli avvenimenti, “di sentirli a fiuto o a ragione o a pelle”. Parafrasando Camilleri, riconosciamo in Pirandello e Sciascia una perenne attualità, che è il signum individuationis di tutti i grandi scrittori.