La guerra psicologica dell’ISIS e l’attacco all’aereo del’EgyptAir

Il califfato di Al Baghdadi ha, finora, saputo utilizzare molto bene le tecniche della guerra psicologica. Dalle riprese professionali e da spot pubblicitario delle sue feroci esecuzioni, tanto più efferate proprio quanto più occorreva instillare la paura nel pubblico generico dei Paesi Occidentali, alla sequenza di minacce ripetute sulla futura invasione dell’Europa da parte del jihad “della spada”, all’aereo russo abbattuto nel Sinai, alle pubblicizzatissime “adesioni” di Boko Haram, di Al Qaeda nel Maghreb Islamico, di tanti gruppi jihadisti in Africa del Nord e in Yemen, fino alle minacce riguardanti le “cellule dormienti” in Occidente. Una escalation che è strategica e informativa insieme, perché mira a bloccare le difese dell’avversario e a renderlo cieco di fronte alle possibili nuove zone e momenti dell’attacco. Lo dice già il Corano, l’arte dell’inganno, operata dal Profeta stesso,vale per tre materie: per riconciliare due o più litiganti islamici, con la propria moglie e in guerra. E’ Allah che è descritto nel libro sacro dell’Islam “il miglior ingannatore” (3:54, 8:30, 10:21).

La guerra tra la Vera fede è eterna, e dura finché “ogni religione appartenga ad Allah” (8:39). Niente quindi, qualunque sia il grado di verità della minaccia operativa e strategica, è stato dimenticato dal califfato sirio-iraqeno. Ed è proprio lo specifico assetto culturale e politico del jihad attuale a rendere efficace questo mix tra antica dottrina coranica e dottrine modernissime di psywar, tra guerriglia postmoderna e informativa con le tecnologie più innovative e l’antica tradizione degli hadith del Profeta. E certo, il fatto di aver avuto, fin dall’inizio, l’apporto delle strutture Stay Behind delle forze baathiste iraqene sunnite per l’Isis, dopo la folle scelta degli USA, in seguito alla seconda guerra del Golfo, di “chiudere” tutto l’apparato del regime saddamita, non è stato irrilevante per definire la complessità e la raffinatezza della guerra psicologica del califfato.

Fu proprio Francesco Cossiga, durante una operazione delle forze di Saddam nella Seconda Guerra del Golfo, compiuta con scoppi di ordigni simultanei a larghissima distanza tra loro, ad aprirmi gli occhi sul fatto che la rete di Stay Behind iraqena e baathista era molto probabile che fosse ancora pienamente operativa. Le strutture coperte di Saddam Husseyn erano state approntate infatti dai francesi negli anni della guerra fredda, ma poi erano rimaste occulte anche per gran parte dei “consiglieri” sovietici, durante il lungo regime di Saddam Husseyn. Poi esse sono probabilmente riemerse con la destabilizzazione succeduta alla cosiddetta “democratizzazione” dell’Iraq, creandosi infine una loro autonomia con il “califfato”. Dobbiamo poi qui ricordare anche le azioni, ferocissime anch’esse, a Parigi e in Belgio. Sono state operazioni definibili sia come simboliche, certamente, ma non solo. Esse mirano ad una dimostrazione di forza non condizionata dall’avversario che significa soprattutto che: 1) noi del jihad siamo già perfettamente operativi al vostro interno e non vi temiamo, 2) colpiamo quindi quando vogliamo e dove vogliamo, senza che voi possiate mai saperlo. Non avete modo di colpirci, voi “infedeli”, quindi appunto non fatelo, perché la colpa e gli effetti ricadrebbero solo su di voi.

Si pensi qui allo scoppio di retorica, di eccezionale ignoranza per i fatti storici e politici, contro Israele: se non ci fosse lo Stato Ebraico, dicono i propagandisti ufficiali e occulti del jihad, non ci sarebbe il risentimento dell’Islam contro di voi, per cui eliminatelo voi stessi. Ovvero: accettate il nostro condizionamento, in modo da divenire nostri agenti e, quindi, alleati e allora intoccabili da parte del nostro jihad. Propaganda+Azione simultaneamente, quindi, gestiti dall’Isis e dal suo sistema operativo-informativo per impaurire e addomesticare il grande fronte silenzioso del jihad permamente. Successivamente la psyops operativa del califfato sottolinea l’autonomia culturale dell’Islam europeo dalle società multietniche e multiculturali, un brodo di cultura che, quando ci saranno partiti islamisti in EU e organizzazioni sindacali coraniche, sarà perfettamente completato e manipolabile. Come, per ricordare i nostri “anni di piombo” lo era l’Autonomia Operaia, porta girevole, copertura e area di addestramento per le Brigate Rosse. Dall’altra parte, il califfato opera, con le azioni violente, una intimidazione del mondo informativo e culturale occidentale, che deve essere convinto di due cose: a) che non è mai possibile contrastare il jihad sul proprio territorio, b) che l’EU e gli USA devono abbandonare il sostegno ad Israele. E, soprattutto, che devono arrendersi senza condizioni al jihad. Solo dopo la resa assoluta vi sarà la pace. Anche qui, valgono i criteri coranici per la guerra: se si astengono dallo scontro con i fedeli di Allah, è Lui che segue la efficacia delle loro parole, non i Suoi combattenti (8:61). La variabile comunicativa, rispetto al jihad di Osama Bin Laden, è che per l’Isis l’Occidente non deve più eliminare il proprio appoggio ai “takfiri”, agli “apostati” delle monarchie del Golfo, che peraltro sostengono quasi ufficialmente il nuovo jihad territoriale e statalista del califfato. La loro logica operativa è quella contro l’Iran degli “infedeli” sciiti dei loro sostenitori. Prima, con la “base certa” (Al Qaeda al Sulbah) di Bin laden questa variabile era del tutto secondaria. Lo “stato nuovo” dell’islam sirio-iraqeno è anche, altro elemento di propaganda per il proletariato islamico giovanile di seconda generazione nato in Europa, un mito, una fonte di sostentamento nella crisi UE e USA e soprattutto di gloria in combattimento, insomma, una bandiera per la quale vivere e morire. E’ il mito che muove, da sempre, i popoli. Quindi, si tratta di una propaganda a più strati, come sempre in ogni operazione antica e moderna di guerra psicologica.

Ma, come tutte le psyops, essa non deve mai essere ripetitiva. Deve anzi essere sempre molto innovativa, contenere in sé quella mossa del cavallo che distorce la comunicazione dell’avversario, la intossica stabilmente e conduce il nemico stesso alla sconfitta, che si sarà costruita con le sue stesse mani. Qui le lezioni della Federazione Russa e della Cina sono determinanti: Mosca ha eliminato fisicamente e completamente il suo jihad in Cecenia, senza alcuna restrizione; ed è per questo, rotto il braccio operativo dei proxy warriors nel suo territorio o ai suoi confini vitali, può permettersi una guerra regionale in Siria contro gli alleati jihadisti delle petromonarchie. Senza avere interdizioni di sorta, salvo l’azione di disturbo della Turchia, ridotta a proxy dell’Arabia Saudita malgrado l’AKP di Erdogan nasca da una costola dei Fratelli Musulmani e che questi, tra i sauditi, siano messi a morte. Fu proprio un docente universitario della Fratellanza, a Riyadh, a radicalizzare il giovane Osama Bin Laden. Occorre peraltro aggiungere che il potere sugli idrocarburi dei russi rende ad essi possibile anche un colpo geoeconomico contro l’OPEC, magari breve ma comunque durissimo, sul piano della gestione del mercato petrolifero e gaziero, cosa che a noi manca ovviamente del tutto. Tutto accade proprio quando l’Arabia Saudita sperimenta, per la prima volta nel 2015, un deficit di bilancio e una sua entrata, per la prima volta, nel mercato globale dei debiti pubblici. Allora non è, quella russa, una sfida occulta da mettere da parte con sufficienza. Eliminazione dei tramiti e delle aree di una futura proxy war destabilizzante per Mosca, quindi. Per poi trattare senza limiti anche con i Paesi che sostengono il jihad contro la UE, avendo carte serie da giocare, non chiacchiere sui principi umanitari. Per la Cina, invece, valgono come azioni antijihadiste la parificazione geoeconomica di tutte le forze in campo, l’utilizzazione per iniziative specifiche delle aree-cuscinetto, basti pensare agli aiuti di Pechino al Pakistan, amico storico nell’area, per il progetto del porto di Gwadar, fino all’apertura all’India con l’entrata recente di Nuova Delhi nella Shangai Cooperation Organization. Pechino non trascura nemmeno l’invio di ben 5000 elementi delle forze di élite cinesi, quali la Tigre Siberiana e le teste di cuoio che, dopo il “via” alla specifica legge dato dal Congresso del Popolo nel 28 Dicembre 2015, possono operare all’estero. Se la Turchia vorrà aprire il suo fronte dopo lo scontro in Siria, saprà a cosa andrà incontro. La Cina non vuole soprattutto il contagio tra lo Xingkiang uighuro e il jihad siriano, dato che la regione degli islamici di origine turkmena confina con Kirgizistan, Tagikistan, Afghanistan, Pakistan e India. Non è poi escluso che alcuni operativi cinesi siano già, in assetto da “guerra ibrida” e da psywar operativa, nelle aree più calde del quadrante sirio-iraqeno. Ecco: Mosca e Pechino hanno la forza di fare la guerra asimmetrica contro un’altra guerra asimmetrica, senza limiti di confini territoriali, norme “umanitarie” da seguire, accordi tra Paesi con pubbliche opinioni distratte, impaurite, intontite da slogan autolesionisti quali Charlie c’est moi o appelli follemente pacifisti proprio dopo gli attentati di Parigi. Ogni guerra ibrida si combatte solo e unicamente con un’altra guerra ibrida. E pensare che era stata proprio l’Alleanza Atlantica a inventare, nel 2014, il concetto di guerra ibrida, pensando alle operazioni russe in Ucraina, definendo all’inizio la c.d. “guerra ambigua”. Ecco: se volete una definizione, il jihad dell’ISIS sta appunto operando una guerra ibrida contro di noi. Un contrasto senza limiti di tempo e spazio che usa forze legali e strutture illegali, la criminalità organizzata e le strutture di élite ufficiali, la guerra dell’informazione e le reti di notizie ufficiali. Il fine di questa specifica psyops è quello di inserire un meccanismo imprevedibile nel decision making dell’avversario, che lo renda o incapace di una risposta adeguata oppure adatto ad una risposta sovradimensionata e nella direzione sbagliata, egualmente pericolosa. Inoltre, l’avversario deve essere indirettamente addestrato, grazie alla psyops jihadista “ibrida”, perché anche le azioni militari sono comunicazione, a non poter prevedere né accusare alcuno o, meglio, a dover accusare sempre l’autore sbagliato del jihad che lo colpisce. E ciò avviene in modo da ampliare il fronte dei suoi nemici e a rendere ulteriormente imprevedibile l’area dei suoi obiettivi sensibili. Ma, beninteso, chi colpisce è sempre e comunque il vero “centro operativo”, il nucleo verticale del comando jihadista, tramite questo o quel braccio operativo, sempre occasionale o addirittura privo della conoscenza di chi davvero lo sta ingaggiando.

Questo meccanismo vale anche per l’aereo egiziano 804 in volo da Parigi verso Il Cairo. I Servizi USA, da informazioni in nostro possesso, avevano già scoperto un team specializzato dell’Isis, operante a Raqqa da settimane, che ha, con estrema probabilità, preparato il piano per l’attacco al volo 804 EgyptAir, colpito a 288 chilometri a Nord di Alessandria. E’ quindi molto probabile che, dato che queste operazioni non si programmano mai da sole e che sono temporizzate in largo anticipo, per ovvi motivi di segretezza e compartimentazione, vi sia da ora in poi uno sciame di azioni terroristiche o, più esattamente jihadiste, in EU e, forse, negli stessi USA. Ed è proprio per questo che Parigi e le altre capitali europee, oltre che i Servizi del Cairo, che ancora subiscono l’ambigua defamation del caso Regeni, tendono a non confermare la matrice terroristica dell’azione contro l’aereo di linea egiziano. Ovvio: se lo dicono, si dimostrano deboli, se non lo dicono possono derubricare e depotenziare temporaneamente il jihad dell’Isis, senza contare che, tradizionalmente, ogni attacco aereo presuppone una futura operazione a terra.

Questo presuppone, inoltre, che, come è peraltro già accaduto, il responsabile delle Forze USA in Medio Oriente, gen. Votel, si sia recentemente recato segretamente in Siria per visitare la base curda del YPG e le forze speciali americane nella loro base di Ramelan, circa a 288 chilometri da Raqqa. Gli Apache AH-64 possono attaccare con una qualche facilità tattica la capitale del califfato, mentre le forze curde del comando unificato YPG, che pure non sono state invitate alle trattative a Ginevra e a Vienna opereranno, anche con nuove armi, sul terreno. I rapporti tra Washington e il Cairo sono ancora deboli, ma ci arrivano notizie di azioni congiunte di forze speciali USA e di operativi dei Servizi egiziani contro le aree Isis nella zona intorno al porto di Tobruk. Ecco, quindi, le regole della guerra asimmetrica: 1) colpire in segreto, 2) quando questo colpo è un successo, decidere se dare la notizia esatta o creare una “intossicazione informativa”. La questione dipende dal fatto se si voglia coprire ancora la base dell’azione o se, rapidamente già spostata, la si possa rendere nota e poi, 3) creare una ambiguità informativa non solo nei dati del nemico, ma soprattutto nel suo processo di decision making. E’ questa la guerra ibrida del jihad territoriale dell’Isis e delle sue basi coperte all’estero, è quindi questo il terreno su cui si devono confrontare le strategie, uguali e contrarie (Opposing FORce, OPFOR) dell’Occidente, senza paura, senza falsi moralismi e, soprattutto, senza l’idea, morta con la guerra fredda, che si debba solo “contenere” il nemico. Il nemico va eliminato, e soprattutto va destabilizzato al suo interno demoralizzandolo, diffondendo notizie che intossichino il suo processo decisionale, abbattendo il morale dei suoi soldati, diffamandolo ed eliminando così i suoi rapporti con gli Stati amici o le sue coperture occulte.

E’ la fase, nuova per l’Occidente, di quella che due colonnelli cinesi, Quiao Liang e Wang Xiangsui, definivano anni fa, nel 1996, in un libro destinato ad arrivare in Occidente due anni dopo, “la guerra senza limiti”.

Giancarlo Elia Valori