La nuova questione uyghura Nuove note sul tema

Molte sono le novità interne al sistema organizzativo e politico del World Uyghur Congress, una organizzazione che segue con attenzione l’evoluzione dell’universo islamico globale e i suoi trends evolutivi, sia in Asia Centrale che nel resto del mondo, Occidente compreso.
Una maggiore attenzione alla propaganda sui diritti umani in Unione Europea, giustamente vista come l’anello debole del sistema occidentale antijihadista, poi un rapporto ufficiale con la Turchia, come si vede con le recenti manifestazioni a Istanbul del 23 Dicembre 2017, le attività in Australia, le conferenze programmate a Oslo per la gioventù uyghura sui “diritti umani”, il 18 Marzo 2018, gli incontri a Ginevra in relazione alle attività di altri sui diritti umani e la democrazia.
Ecco, questo è il canone del World Uyghur Congress: trasferire e cancellare la questione del jihad in Cina, che è innegabile, con la trama dei diritti umani della democrazia nella regione autonoma uyghura.
E’ poi recentemente deceduto, a 82 anni, l’Imam Mohammad Salih Hajim, che si trovava in un campo di rieducazione cinese.
L’Imam sunnita era stato il primo religioso islamico a tradurre il Corano in lingua uyghura, con una edizione apparsa nel 1986, anno importantissimo per la ricostituzione dei vari movimenti islamici dello Xingkiang.
E’ proprio il 1986 che vede la cristallizzazione delle prime organizzazioni a metà tra il jihad e la dawa, la conversione e la propaganda religiosa del testo coranico.
Lo Shaik Salih Hajim era anche la memoria storica di vari e molti fatti, quelli che caratterizzano la specificità della situazione uyghura, sia sul piano politico-religioso che storico e organizzativo.
La questione uyghura inizia come problema geopolitico tra Russia e Cina, da ben prima della modernizzazione dei due Paesi, per poi ridefinirsi come un cleavage, una frattura di carattere unicamente religioso, un jihad tra la verità islamica e l’errore dello stato laico, comunista e, soprattutto, di etnia han.
Ma il rivestimento religioso della questione, voluto da potenze estranee alla Cina, non ha mai cancellato la profonda tensione etnica e le complesse relazioni tra gli uyghuri e le varie etnie presenti nel territorio dello Xingkiang, dove un complesso meccanismo migratorio tra han e turkmeni locali ha ripetuto la contraddizione, tipicamente marxista, tra città e campagna.
Lo Shaikh Haji Halim aveva infatti ben visto e studiato la antica ribellione del Kashgar contro la Repubblica Cinese, una rivolta che portò alla costituzione della prima Repubblica Islamica Turca del Turkestan Est, che durò solo due anni, dal 1933 al 1934.
La brevissima repubblica islamica fu duramente sconfitta dalla 36° Divisione Islamica degli Hui, una divisione delle Forze Nazionali Rivoluzionarie, che sconfisse la repubblica islamista in due battaglie, entrambe avvenute a Kashgar nel 1933 e nell’anno successivo.
Fu poi un membro segreto del Partito Comunista dell’URSS, Sheng Shicai, colui che organizzò poco dopo la caduta definitiva di Kashgar un golpe, governando, malgrado gli ordini del governo centrale di Pechino, tutta l’area dello Xigkiang, dallo stesso Sheng ridenominata semplicemente “Repubblica della Cina”.
Sheng Shicai, come spesso è accaduto nella storia del comunismo cinese, si ribella in un momento successivo proprio contro l’URSS, che troppo esplicitamente vuole controllare tutta l’area della “Repubblica di Cina”; ed espelle i consiglieri di Mosca, oltre a far uccidere molti dei membri del PC locale che si sono dimostrati fedeli all’URSS.
Stalin, così, decide di invadere tutto lo Xingkiang; e le truppe sovietiche aiutano i ribelli anti-Sheng, in particolare nello spazio di Ili, durante tutta la durata della guerra civile in Cina.
Ecco, se non si comprende il ruolo fondamentale dello Xingkiang nell’equilibrio, essenziale anche oggi, tra Federazione Russa e Cina Popolare, non si riesce a chiarire il ruolo specifico dell’Islam politico degli uyghuri.
Ma torniamo alla storia: la ribellione, istigata da Stalin, porta infine alla costituzione della Seconda Repubblica dell’Est Turkestan, che durerà dal 1944 al 1949.
Un organismo politico che avrà sovranità soprattutto a Ili, Tarbatagai, Altai, e quindi solo in alcune zone dello Xingkiang, mentre la grande maggioranza della popolazione uyghura rimarrà sotto il controllo diretto della Cina.
L’attuale rivolta islamista nell’area dello Xingkiang è quindi un tentativo di manipolare l’evoluzione unitaria dell’Asia Centrale e, inoltre, di separare duramente Mosca e Pechino.
E tutto questo accade proprio per impedire che l’asse tra quei due paesi possa determinare, in futuro, anche l’evoluzione degli equilibri mediorientali e, più in generale, dell’Occidente.
Ecco il motivo della forte propaganda del WUC, il World Uyghur Congress, in Europa e nei Paesi anglosassoni.
Si tratta quindi anche della UE, nello Xingkiang, e non solo per quanto riguarda la stanca ripetizione del mantra sui “diritti umani”.
Se la UE cadrà nella rete dei favoreggiatori del jihad uyghuro, allora la Russia non avrà aperture verso la sua penisola eurasiatica e la Cina non potrà più uscire dalle sue strettoie terrestri per formare la sua nuova “Via della Seta”.
E, è bene notarlo, furono i capi del jihad panturco di allora, quando Pechino si riprese il c.d. “Turkestan Orientale”, ovvero Mohammed Amin Mughra e Masud Sabri, a rifiutare duramente sia i sovietici che il governo di Shang Shicai, che avevano imposto la formula del “popolo uyghuro” per definire l’etnia non-han che vive nello Xingkiang.
Essi, i due capi islamisti, preferivano definirla direttamente “etnia turca”, mentre gli Hui islamici erano, per entrambi i leader politico-religiosi, dei semplici cinesi han che avevano abbracciato la fede coranica.
Sheng Shicai, invece, voleva definire le etnie turche dell’area in modo differenziato e per questo fu duramente criticato dai nuovi leader islamisti dell’universo panturco dello Xingkiang.
Paradosso linguistico e geopolitico: gli islamisti attuali usano in termini etnico-religiosi quelle stesse categorie demografiche che prima avevano rifiutato.
Frazionamento etnico, invenzione del mito panturco dell’Islam cinese del Nord, difficile equilibrio tra la Cina e gli altri players geopolitici del cosiddetto Turkestan dell’Est.
Ecco la complessa formula che presiede alla nuova islamizzazione dello Xingkiang, che ha un fine politico e non certo etnico o religioso.
All’inizio del XIX secolo, vi erano comunque 155.000 cinesi han e hui nello Xingkiang del Nord, un numero più che doppio rispetto, allora, a quello degli uyghuri che abitavano, in grandissima parte, nella parte meridionale dell’area.
Nel censimento del 1953, la situazione poi si rovesciò radicalmente, con un 6% di popolazioni han e il 75% di uyghuri.
Ma, oltre gli han, nello Xingkiang hanno avuto da sempre un ruolo importante, dal punto di vista economico e demografico, popoli come i Kazaki, gli Xibi, ovvero i tagiki che avevano invaso la prefettura di Siu nel 1700, e le varie tribù mongole.
Questa potrebbe essere una traccia per comprendere e, magari iniziare a risolvere la tensione attuale nello Xingkiang: riconoscere le varie etnie, esaltarne la storia e la funzione sociale, in un Paese come la Cina Popolare che riconosce ufficialmente 56 popoli differenti sul proprio territorio.
L’equilibrio tra le diverse popolazioni diluirà le tensioni e le renderà tali da controllarsi l’una con l’altra, indipendentemente dalle loro dimensioni.
Il jihad panturco in Cina è quindi, prima di tutto, un tentativo, da parte di una maggioranza di uyghuri, di egemonizzare le varie etnie minori dello Xingkiang, per poi bloccare lo sviluppo della Cina verso l’Asia Centrale, separandola da Mosca e costringendola a rimanere uno stato costiero.
Quindi economicamente e strategicamente dipendente e facilmente controllabile dall’esterno.
Ventuno miliardi di tonnellate di riserve petrolifere, non dimentichiamolo, aspettano nel sottosuolo dello Xingkiang, ed è facile pensare come questo modifichi il ruolo di Pechino come stato compratore degli idrocarburi mediorientale.
E’ quindi facile capire, ora, chi sostenga oggi il jihad uyghuro e chi, invece, non sia interessato a questo progetto geopolitico e geoeconomico.
L’area autonoma uyghura, così come è designata formalmente dal governo di Pechino, ospita, nel 50% del suo territorio, altre 13 etnie non uyghure.
E’ questo un dato, lo ripetiamo, che ci fa vedere una situazione più complessa di quella ormai stereotipata, sull’islam turkmeno e uyghuro.
Ma, sul piano del jihad, il Partito Islamico del Turkestan è da sempre alleato, stabilmente, con il Movimento Islamico dell’Uzbekistan oltre che ai Taliban pakistani e ad Al Qaeda.
Il Consiglio Centrale (la Shura) di Al Qaeda ha ospitato, fin dall’inizio delle sue attività, Abdul Haq al Turkestani come membro a pieno diritto, mentre lo stesso Consiglio aveva nominato Abdul Shakoor Turkistani come comandante militare di Al Qaeda, proprio nell’area delle Provincie Autonome del Pakistan, al confine con l’Afghanistan.
Quelle dove, ad Abbottabad, viveva nascosto proprio Osama Bin Laden.
E’ infatti qui, nelle periferie dei vecchi imperi, che si decide oggi il futuro dei nuovi imperi e, a Pechino, lo sanno perfettamente.
L’obiettivo strategico di questa alleanza jihadista è infine quello di costruire uno stato islamico centro-asiatico, con una alleanza tra jihadisti ceceni, rohingya, kirghizi, tagiki e uzbeki.
I turkestani islamisti sono in maggioranza, ormai, tra quei militanti del jihad che, in maggior numero, ingaggiano oggi lo scontro con le forze regolari dello Stato Afghano.
In Siria, dopo l’intervento russo, i jihadisti uyghuri hanno combattuto soprattutto nella zona di Al Ghab, mentre la Katiba Turkestani, la brigata degli islamici del Turkestan cinese, hanno operato in Siria con gruppi quali Ahrar Al Sham, Jabhat al Nusra e Junud al Sham, soprattutto contro l’esercito arabo siriano di Bashar el Assad e contro i suoi alleati sciiti.
Le reti utilizzate dai jihadisti dello Xingkiang per arrivare in Siria sono state soprattutto quelle turche, in particolare attraverso la Umanitarian Uyghur Eastern Turkistan Education and Solidarity Association, mentre i gruppi collegati al jihad siriano in Cina hanno ucciso l’Imam filo-cinese Juma Tayir avvenuto nella moschea Id Kah di Kashgar il 30 luglio 2014.
La radicalizzazione dello scontro è essenziale, oggi, per iniziare il jihad nello Xingkiang, eliminando la vasta massa di moderati e uomini pacifici.
Una voce per la pace nello Xingkiang, quella di Juma Tayir e una forte presenza atta a favorire la fine delle ostilità, spesso manipolate e irrealistiche, tra han e uyghuri islamisti.
Durante le operazioni jihadiste in Siria, il Turkestan Islamic Party ha poi diffuso ben 18 video sui siti della rete terroristica pseudo-califfale operante in quel Paese.
Secondo le fonti uyghure, infine, sarebbero ben 120.000 i militanti islamici detenuti nei campi di rieducazione nell’area di Kashgar.
Per le autorità cinesi, i detenuti nei campi di rieducazione sono circa 45.000.
Ma Pechino ha comunque serissimi problemi di terrorismo interno, sempre di radice islamista e jihadista.
Li elenchiamo: la bomba sull’autobus nell’area di Xidan a Pechino del 1997, l’inizio delle operazioni jihadiste in Cina, poi l’esplosione di una automobile nella Piazza Tienanmen nel 2013, ancora un attacco di massa con i coltelli a Kunming, una stazione ferroviaria dello Yunnan nel Marzo 2014, poi una bomba in una auto nel mercato aperto di Urumqi, il 22 Maggio del 2014, per poi subire l’attacco a Bangkok nell’agosto del 2015, e ancora l’esplosione coordinata di venti bombe nella provincia di Guanxi alla fine di Settembre del 2015, poi di nuovo l’assassinio di un insegnante cinese, Fan Jinghui e di un altro cittadino cinese da parte di terroristi islamici nel Novembre 2015, infine l’attacco all’Hotel Radisson Blue a Bamako, nel Mali, il 20 Novembre sempre del 2015, con 27 vittime, tra cui alcuni cinesi.
La Repubblica Popolare Cinese ha tentato di risolvere la tensione terroristica al proprio interno in tre modi, ovvero favorendo la crescita economica regionale nell’area a maggioranza islamica, una più forte rete di sicurezza interna nello Xingkiang e infine un controllo più severo sulle attività religiose, identitarie e culturali delle varie etnie presenti nell’area del c.d. “Turkestan Orientale”.
Sempre per chiarire la rete dei passaggi tra Xingkiang e le aree del jihad, soprattutto in Siria, si deve notare che vengono spesso usati falsi passaporti turchi, ormai prodotti in quasi 100.000 copie, per poi far arrivare i jihadisti, appunto, in Turchia e da lì farli infine arrivare in Siria e in Iraq, per unirsi al sedicente califfato di Al Baghdadi e alle organizzazioni jihadiste che combattono Assad, i russi e gli iraniani sciiti.
Gli islamisti uyghuri passano solitamente dalla Cambogia e dalla Tailandia verso la Malesia, un paese che non richiede visti per il viaggio verso la Turchia.
Gli uyghuri del jihad vengono soprattutto utilizzati, in Siria, per attacchi contro i cristiani, gli sciiti e, in particolare, contro il legittimo governo indonesiano, per la “liberazione” dell’area islamica del Sulawesi.
Molto è passato quindi davanti agli occhi dello Shaikh Mohammed Salih Hajim, che infatti ha visto la islamizzazione, portata da fuori, del contrasto tra turkmeni e han cinesi, poi la egemonizzazione, tramite l’islam, dell’area minoritaria delle 13 etnie dello Xingkiang, che pure formano ancora circa il 50% della popolazione meridionale di quella regione, poi la sistematica lotta violenta, in nome del jihad, contro il potere di Pechino.
Prima, all’inizio della creazione dello Xingkiang attuale, la visione frazionistica dei sovietici e dei loro alleati nella regione, poi la etnicizzazione del conflitto, modificando artificialmente i dati della distribuzione etnica, poi infine l’islamizzazione, tramite il jihad presente ai confini della Cina, dello scontro tra uyghuri e cinesi han.
Come se gli altri non esistessero e come se la lotta tra etnie non potesse che essere di tipo religioso.
Ecco, in questo senso possiamo notare che, da tempo, i dirigenti cinesi hanno sempre più notato come la questione del jihad nello Xingkiang, sempre eterodiretta malgrado le apparenze, divenga una questione di politica estera, oltre che di sicurezza interna.

Giancarlo Elia Valori