La questione della Brexit

Il problema della Brexit, l’uscita della Gran Bretagna dalla UE, riguarda l’annoso quesito su cosa muova davvero l’elettorato: i miti, le identità, reali o immaginarie, oppure gli interessi materiali a breve termine?

Per la grande scuola politologica e filosofica dell’elitismo italiano, da Pareto a Gaetano Mosca, il meccanismo politico è sostanzialmente identitario Come sosteneva appunto Vilfredo Pareto, vi sono i residui, che il sociologo e economista genovese elencava positivisticamente in sei: l’istinto delle combinazioni, la persistenza degli aggregati (intesi nel senso dei vecchi ideali e miti politici), il bisogno di manifestare i sentimenti con atti esterni, l’istinto di socialità, l’integrità dell’individuo e, ultimo, allora ma non oggi, in piena ossessione degli pulsioni primarie in politica, l’istinto sessuale.
Gli atti, per quanto riguarda le derivazioni, non sono logicamente connessi al risultato ma lo sono sempre nella coscienza di chi agisce.
Indipendentemente dalla forma politica dello Stato, democrazia, oligarchia, totalitarismo, comunismo, residui e derivazioni, entrambi, danno veste logica agli istinti e ai simboli pseudorazionali che muovono all’agire. Quindi, sempre per Pareto, la scelta o meno della Brexit riguarderebbe due miti: quello della crescita economica per chi vuole ancora la permanenza del regno Unito nell’Europa Unita; oppure il mito identitario del vecchio British Empire,ovvero della estraneità di fatto della Gran Bretagna dalla politica e all’economia europee, insomma ai miti che hanno costituito la UE.
Miti, questi, che riguardano la fine della lunga guerra civile europea, come la chiamarono, dalla Rivoluzione Francese (o dal 1914) fino alla Seconda Guerra Mondiale, storici come Ernst Nolte o, da altra prospettiva politica, Enzo Traverso.
Il mito della pace in Europa tramite l’espansione dei commerci e dei redditi interni; e la creazione di un altro mito, quello dell’Europa come Patria nuova.
Due miti geopolitici ed economici in pericolo. La crescita dei redditi non c’è e non ci sarà per lungo tempo, la Patria Europea comporta la creazione di rituali e simboli che sostituiscano quelli nazionali, il che ancora non è avvenuto.
Ma Londra è di fatto estranea alla logica della guerra civile europea: ha certamente combattuto le due grandi guerre mondiali, ma con mentalità, interessi, eroismi che si collegavano, piuttosto, ai suoi miti di fondazione come Imperium autonomo.
Salvo poi dover cedere, in pagamento dei crediti concessi per la guerra, il suo impero globale agli USA, che ne avevano sostenuto lo sforzo bellico, avevano ad esso grandemente partecipato e, con la guerra fredda, dovevano mantenere lo scontro duale mondiale con l’URSS.
Una translatio Imperii che, probabilmente, non è stata qancora digerita, sul piano dei “residui” paretiani, dall’elettorato inglese.
Per Gaetano Mosca, la classe politica è l’insieme delle gerarchie che materialmente o moralmente dirigono una società.
E oggi, in un contesto di globalizzazione ormai universale, di residui e derivazioni paretiane che si declinano tutte negli stessi linguaggi simbolici, dove sono le classi politiche moschiane all’interno delle nazioni?
E possono queste classi politiche e gerarchie “morali e materiali” sostenere le inevitabilmente diverse richieste, interessi, miti dei singoli popoli, non ancora unificati in una grande massa liquida mondiale?
La globalizzazione ha creato in ogni Paese UE degli shock asimmetrici che, gestiti da classi politiche mediocri, sono stati amplificati nelle singole nazioni, creando vere e proprie cessioni di sovranità occulte.
E’ il caso, manco a dirlo, dell’Italia, mentre non è questo il modello di integrazione globale dell’Inghilterra, che ha subìto la cura dimagrante per partecipare al defilè della globalizzazione prima che questa iniziasse, con gli anni del thatcherismo.
Anche questo è un tema centrale per comprendere, sul piano filosofico-politico, la Brexit.
E’ possibile quindi oggi una globalizzazione culturale applicata alla elaborazione dei miti politici e di un loro para-razionale collegamento agli interessi?
E’ possibile, in altro modo, un mito politico unitario che si declina, per i particolari irrilevanti, nel linguaggio simbolico di ogni Paese?
Si, per quanto riguarda i miti del consumo, sessualizzati e ridotti a immagini pulsionali da parte dei mass-media; ma certamente no per quel che concerne i miti e i modi della produzione, che non sono ancora universalizzabili.
Si pensi qui alle differenze tra il nostro Made in Italy artigianale e la fabbrica manchesteriana inglese.
Geminello Alvi ha parlato, in questo contesto, di “ideale cinese”, uniformante e spersonalizzante, del “capitalismo”.
E’ questo quello che oggi chiamerei il “dilemma di Gaetano Mosca”.
Le classi politiche sono oggi davvero tali, e riescono a mettere insieme i miti e gli interessi?
Ovvero si tratta di stabilire se la globalizzazione porti con sé una specifica mitologia politica, una sua classe politica moschiana, o meno.
Ma torniamo alla Brexit in senso propriamente economico e finanziario.
Dato che il commercio estero è il driver di tutte le economie contemporanee, la Gran Bretagna non fa eccezione: l’export, compresi i prodotti finanziari, assorbe circa il 30% del PIL inglese.
Ma l’EU assorbe oltre il 50% di tutte le esportazioni britanniche.
D’altra parte, oltre il 50% delle importazioni inglesi viene dalla Unione Europea, con oltre la metà di questo import dall’Europa che serve come “bene intermedio”, ovvero è utile a produrre altri beni e servizi Made in England.
Circa il 10% del totale delle esportazioni dall’Unione va in Gran Bretagna, con una quota tra i beni e i servizi che è di circa il 36% ( per i servizi) rispetto al 64% di manufatti.
Quindi, le questioni commerciali sono, proporzionalmente, negli scambi bilaterali tra UK e EU, più importanti per l’Inghilterra che non per il resto (resto?) dell’Europa.
Inoltre, la Gran Bretagna è il maggior utilizzatore, in ambito UE, degli Investimenti Esteri Diretti, con circa il 50% degli FDI che viene dall’Europa e il 30% dagli USA.
E’ noto poi che, dalla fine della sovranità britannica ad Hong Kong, che Margaret Thatcher accettò nel 1997, tra le lacrime dell’ultimo governatore, Chris Patten, inizia il vero boom finanziario della Borsa di Londra.
E la Borsa londinese è quella che regola ( o possiede) gran parte delle piazze finanziarie europee.
Un primato peraltro raggiunto malgrado l’UE, non certo grazie ad essa.
Gli industriali britannici dipingono scenari da tracollo, se la Brexit fosse votata dagli elettori del Regno Unito.
La CBI, la Confindustria inglese, sostiene che l’uscita di Londra dalla UE porterebbe a zero la crescita economica già nel 2017 e nell’anno successivo.
Senza un accordo di libero scambio successivo alla Brexit entro il 2020, il PIL britannico potrebbe calare del 5%, mentre secondo altri scenari prodotti dalle banche d’affari della City il PIL scenderebbe comunque del 3% anche con una nuova intesa commerciale con gli ex-partner europei.
Sarebbero colpiti soprattutto il numero e la qualità dei posti di lavoro inglesi, con una disoccupazione che dal 5,1% attuale salirebbe di altri tre punti.
Oltre l’80% delle imprese associate alla CBI ritiene che la Brexit sarebbe una rovina per l’economia britannica, con un costo previsto di 100 miliardi di Sterline.
Le opinioni contrarie alla permanenza della Gran Bretagna nell’area UE non sono meno razionali, per molti versi.
Ovviamente l’uscita di Londra porterebbe all’utilizzo delle barriere tariffarie per i beni ed i servizi british nel mercato unito europeo, senza pensare alla difficoltà di rinegoziare i flussi commerciali con gli USA e la Cina, dopo essere divenuti una economia senza la massa e il volume dell’Unione Europea.
I fautori della Brexit lo sanno, naturalmente, e non negano i dati che vengono riferiti dai sostenitori della presenza britannica dentro la UE.
Ci sono i contributi britannici al budget europeo, che sono rilevanti, e qui risuona ancora il grido thatcheriano “we want our money back!” alla riunione EU del 1980, e il discorso della Premier britannica, a Bruges nel 1988, quando tuonò contro “il superstato che esercita il dominio da Bruxelles”.
I contributi di Londra alla UE non sono certo piccoli: si tratta, per il 2015, di ben 10,4 miliardi di Sterline, con un aumento che è stato di ben 1,3 miliardi rispetto alle previsioni.
Comunque, siamo allo 0,5% del PIL britannico.
Quindi si risparmierebbero i contributi, tanto per cominciare, ma i favorevoli alla Brexit ritengono che la tortuosa azione di collegamento tra gli interessi di 28 paesi diversi non potrà mai favorire gli interessi economici inglesi nelle trattative commerciali globali.
Inoltre, i favorevoli alla Brexit ritengono che l’uscita dall’EU favorirebbe addirittura l’economia, dato che permetterebbe all’industria britannica di evitare le infinite leggi e i tortuosi regolamenti dell’Europa Unita.
Quindi si perderebbe parte del mercato a 28 del “Continente”, ma Londra potrebbe entrare, anche con i suoi legami nel Commonwealth, nel nuovo mercato-mondo, senza i lacci e lacciuoli delle normative di Bruxelles.
I fautori della Brexit dicono ancora un’altra cosa: se il grande mercato europeo è finalizzato, come si sostiene, all’abbassamento dei prezzi, all’ottimizzazione della concorrenza, allo stimolo al commercio e alla competizione economica.
Ma questo vale solo, sostengono quelli della Brexit, se tutti i Paesi UE sono economicamente identici e lavorano al massimo del loro potenziale.
Altrimenti ci possono essere, e ci sono infatti, elementi di protezionismo per alcuni membri UE nascosti in tanti regolamenti che sembrano favorire tutti.
Ed infatti, la nuova crescita della Gran Bretagna, dati alla mano, ha la stessa forma e gli stessi ritmi non della Germania o del resto della UE, ma degli USA.
“E’ l’Europa che ha bisogno di noi, non il contrario”, dicono i militanti della Brexit.
Ed ecco qui che la razionalità delle derivazioni paretiane si incontra con i vecchi residui psichici del Rule Britannia e della special relationship tra Washington e Londra, due capitali unite da molti interessi e separate dalla stessa lingua.
Qui ritorna l’ossessione geopolitica, da sempre, dell’Inghilterra: la Germania.
Per i sostenitori della Brexit il vero problema della UE non è la Gran Bretagna, ma proprio Berlino.
La Grecia si è rapidissimamente trasformata in una export country tramite il crollo delle importazioni.
Ed è quello che vuole la Germania, che deve gestire il suo boom di esportazioni ed usa la UE come proprio domestic market, senza peraltro nessuno che imponga a Berlino la riduzione del proprio attivo commerciale.
Quindi, per i sostenitori della Brexit, vi è un problema geoconomico, la Germania, una questione squisitamente liberista, ovvero l’impossibilità di fare davvero gli interessi di tutti i 28 membri della UE e, infine, l’unione fiscale, argomento mai smentito prima, che non funziona mai per favorire le aree poco sviluppate, come peraltro è facilmente dimostrabile nel contesto europeo.
L’Unione viene vista, dagli osservatori inglesi che vogliono la Brexit, come un gigante in crisi irreversibile: nel 1973, quando l’Inghilterra entrò nella UE, il PIL europeo, con molti Paesi non ancora membri, valeva il 37% del Prodotto Interno Lordo mondiale.
Nel 2025, secondo le stime più favorevoli, la UE rappresenterà solo il 22% del PIL mondiale.
I Paesi che dominano il mercato-mondo sono oggi gli USA, la Cina, e perfino il Commonwealth, nel suo insieme, è più grande e meglio performante della UE.
Nel 2020, il rapporto tra lavoratori e pensionati sarà di 3 a 1, e nel 2050 di 2 a 1, impossibile da sostenere, e questo grazie all’arretratezza tecnologica ma, soprattutto, all’invecchiamento generalizzato della popolazione europea.
Rimane indigesta, ai sostenitori della Brexit, la massa di regolamenti e restrizioni per i beni made in UK: dal 2010 ad oggi, l’UE ha approvato ben 3.500 nuove leggi che in qualche modo riguardano le imprese britanniche e i loro interessi.
Il costo della burocrazia, per la sola Inghilterra, e questo costo non è assimilabile al contrinuto nazionale alla UE, vale circa 4-5 miliardi di sterline.
Burocrazia disfunzionale, sempre alla ricerca di una sorta di “clausola preferenziale” per qualche membro, il che genera un costo indiretto delle regole commerciali, per la Gran Bretagna, di 7,6 miliardi di sterline/anno.
E da quando è entrato in vigore il Trattato di Lisbona, nel dicembre 2009, il costo dei regolamenti per le imprese inglesi è stato di 12,2 miliardi in norme straordinarie.
I sostenitori della Brexit, poi, sostengono che il peso dell’Inghilterra all’interno della UE è diminuito fortemente: nel 1973, quando il Regno Unito è entrato nella Unione Europea, Londra aveva il 20% dei voti, mentre oggi il governo britannico può contare solo su 9,5 voti.
Sempre sul piano finanziario, i sostenitori della Brexit non vogliono la tassa sui trasferimenti finanziari, la FTT imitata sul modello della vecchia Tobin Tax, un balzello entrato nei regolamenti EU nel gennaio di quest’anno,
Rimane, comunque, una nota, in tutti gli analisti favorevoli alla Brexit, che è geopolitica: l’irrilevanza dell’Europa per la Gran Bretagna.
Connessa, questa nota, all’idea che l’ideale strategico inglese è una Europa in equilibrio, senza un Paese leader, in cui si possa fare da mediatori e da leader strategici.
D’altra parte, sostengono i fautori della permanenza della Gran Bretagna nella UE, la Brexit diminuirebbe il ruolo della Borsa di Londra sul resto dei mercati finanziari europei, sedotti da quella di Francoforte o da Parigi.
L’Irlanda, poi, pagherebbe un prezzo elevatissimo per la Brexit, dato che è fornitore del 35% dei prodotti agricoli e alimentari inglesi, oltre però a soffrire per l’importazione, dopo la Brexit, del gas naturale britannico.
L’impatto sulla sterlina del Brexit, poi, potrebbe rafforzare l’euro contro la divisa inglese, come già sta succedendo.
Insomma, se la Brexit avverrà, l’UE perderà un grande mercato economico, il secondo dell’Europa Unita oltre l’area euro, diverrà sempre più irrilevante sul piano geopolitico e, soprattutto, indicherà a tutti i Paesi scontenti dell’Unione la via dell’uscita, creando un probabile effetto domino che potrebbe portare alla fine o all’irrilevanza politica ed economica della UE.
Ma c’è di più: sarà la Brexit, il recupero pieno della sovranità britannica, a favorire la creazione di un singolo stato europeo, per gestire al meglio le emergense strategiche e economiche, oltre all’immensa immigrazione?
Oppure sarà l’unione su una prospettiva da “Stati Uniti d’Europa” a evitare lo scoppio dell’UE, ma con quali tempi e finalità?
La Gran Bretagna è una potenza militare autonoma, mantiene un seggio nel Consiglio Permanente dell’ONU, non ha nessun evidente interesse, Brexit o no, ad adeguarsi ai processi europei di unificazione strategica, più o meno cervellotici che siano.
Si potrebbe poi pensare ad uno scambio, in cui l’Inghilterra evita ogni discriminazione nei confronti della City, in cambio di una partecipazione maggiore di Londra alla sicurezza collettiva europea.
Per non parlare delle nuove tensioni che si avrebbero nella NATO dopo la separazione della Gran Bretagna dalla UE.
Se vincerà l’identità, che come abbiamo visto possiede anche argomentazioni razionali, avremo la Brexit.
Se invece, al referendum prossimo venturo, avremo un voto almeno apparentemente “razionale”, l’uscita della Gran Bretagna dalla UE sarà evitata. Almeno per ora.