La saggezza di Mattarella, la grande cultura russa e le minacce del nuovo zar

82
in foto il Presidente Sergio Mattarella con Attilio Fontana e Beppe Sala

Canta Milano, Milano in grande spolvero, parafrasando Renato Carosone e la sua trasmissione radiofonica degli anni ’60 Canta Napoli. Aggiungendo subito che in ghingheri, anche se solo con l’ immaginazione, giovedì sera c’è stata l’Italia intera e meglio così. Dopo un lungo vuoto di presenze causata dalle misure di prevenzione del virus per antonomasia, in bella vista nel foyeur della Scala si sono rivisti, tra abituèe e new entry, improbabili successori di quelli che impersonarono la Milano da bere. Quella città e, per estensione, quel Paese, che negli anni ’60 stavano dimostrando al mondo che era possibile attuare lo stesso comportamento della Fenice, rinascendo dalle proprie ceneri, quelle prodotte dalla guerra. Per l’occasione la rappresentanza qualificata di quanti guidano la quadriglia (il Paese), a livello regionale, nazionale e internazionale, hanno avuto la possibilità, prima di incassare gli apprezzamenti e i complimenti pubblici, di scambiare in privato qualche parola che il ruolo imponeva e la circostanza agevolava. Dopo la difesa, mai a spada tratta ma con convincenti e ineccepibili motivazioni, il Primo Cittadino ha ribadito perché fosse indiscutibilmente da lodare la scelta di mettere in cartellone un’opera russa, per giunta Boris Godunov. Narra la stessa la storia tragica, anche personale, di un monarca del ‘700, violento e assetato di potere. Certamente considerazioni così centrate come quelle fatte da una persona colta come il Capo dello Stato, non potevano mancare il bersaglio. L’arte e la cultura russa, ha detto Mattarella, sono una spanna e passa al di sopra delle efferatezze di Putin, emulo di quel sovrano ubriaco di potere appena portato in scena. Probabimente in un momento di sobrietà, quel rodomonte delle steppe ha concesso che una troupe della TV di stato, sua cassa di risonanza, raggiungesse il capoluogo lombardo per riprendere l’evento. Intanto dal Cremlino, quello stesso gradasso sotto mentite spoglie informava di persona il mondo che l’ipotesi di una guerra atomica stava diventando sempre più concreta. È già da qualche giorno che l’asticella del barometro degli umori di chi “fa danni” a dritta e a manca pur rimanendo all’interno del Cremlino, si è posizionata nella zona negativa. Sta confermando così, la brutta copia del personaggio di quell’opera, semmai fossero rimaste riserve in merito, che in quell’edificio possono dire la loro tutti, ma chi decide, a dispetto di ogni comportamento democratico, è solo lui, infischiandosene delle conseguenze così causate anche al resto del mondo. L’intelligence degli Usa fa sapere che il rischio di quell’ annuncio è concreto e particolarmente grave. È noto che la concentrazione dell’arsenale bellico è massima a oriente. Pur volendo essere ottimisti e credere alle parole di XI che la sua Cina non ha alcuna velleità di cimentarsi in un conflitto nucleare, resta la Corea del Nord che, a detta del suo “caro leader” Kim, non aspetta altro che il via libera di Putin per lanciare ordigni nucleari sulle più importanti città americane. Viene di conseguenza fuori a stretto giro la domanda, retorica e più che inquietante, sulla sorte dell’Europa, che non fa parte e non lo farà nemmeno in una ipotesi futuribile e comunque di fantasia, di una generica collaborazione con la Russia. Meglio non addentrarsi in una selva oscura di congetture di tal fatta e lasciare a chi lo fa di professione il compito di approfondire l’analisi. Hanno detto giovedì mattina, è stata l’Immacolata, dì di festa, gli avventori del dopolavoro, che un antico adagio popolare ancor oggi in uso, vuole che ciò che non succede in un anno, può verificarsi in un giorno. Il 24 febbraio prossimo sarà giusto un anno che, proveniente da est, sta spirando un vento folle di  distruzione e sterminio. Chissà che, subito dopo, non possa spuntare uno di quei giorni fatidici. Mai dire mai, tanto non costa niente.