La Turchia e la democrazia ad orologeria

Chi ha seguita i media locali e regionali oppure chi ha avuto modo di passare per la Turchia nelle settimane precedenti al voto, ha avuto la possibilità di constatare quanto sarebbe stato difficile per l’AKP, il partito al potere da 13 anni, ottenere la vittoria schiacciante che sperava. Il partito islamista AKP, per bocca del suo presidente ed attuale presidente della Turchia Erdogan, aspirava ad un 60% dei suffragi! Tale risultato gli avrebbe consentito di indire un referendum sul presidenzialismo che, nel caso di una vittoria dei sì, avrebbe cambiato il volto della Turchia e, probabilmente, segnato il destino della regione. Ma il risultato del voto ha fermato, per il momento, questo progetto presidenzialista, che avrebbe permesso ad Erdogan di governare da presidente, dopo averlo fatto da premier per più di tredici anni. Il progetto è stato fermato da una santa alleanza tra il partito socialista CHP e l’HDP, il partito di sinistra dei curdi. L’appoggio forte del primo al secondo per tutta la campagna elettorale ha fatto si che i curdi ottenessero un bel 13% di consensi, al di sopra di qualsiasi logica speranza, che permetterà loro di sedersi in parlamento con una folta pattuglia di 80 parlamentari, quasi tutti strappati all’AKP. Ecco i risultati: su un totale di 550, il partito islamista AKP ottiene 258 seggi con circa il 40% dei voti, perdodene 67. Il partito socialdemocratico CHP, all’opposizione, ha conquistato 131 parlamentari con circa il 25% dei voti; il partito nazionalista MHP strappa 82 seggi con oltre il 16%, mentre l’outsider partito di sinistra filo-curdi HDP sfiora il 13% e va per la prima volta in Parlamento con 80 deputati. Quest’ultimo è la vera sorpresa di queste elezioni nell’era dei ” Podemos”. L’affluenza, secondo fonti ufficiali, è stata dell’86% e per questo che le elezioni vengono considerate dagli osservatori come un referendum sul progetto presidenzialista. Le opposizioni potrebbero formare un governo di coalizione, avendo più di 290 seggi, ma in realtà non avverrà mai per la natura stessa dei partiti che ne fanno parte. Si va dall’estrema destra dei nazionalisti dell’ MHP ai socialisti e filo curdi di sinistra. Si presenta, quindi, molto arduo Il compito del presidente Erdogan di designare un premier per la formazione di un governo, non più monocolore islamista, ma che si basa su un’alleanza con un altro partito che, naturalmente, avrà le proprie pretese politiche. Considerati gli ultimi 13 anni di dominio assoluto dell’AKP, il nuovo governo sarà un brusco arresto della poderosa organizzazione messa in moto su quel sentiero tracciato dal partito islamista- conservatore, attualmente sotto la guida di Davud Oglu premier in uscita nonché ideologo dello stesso partito. I due fronti su cui si accenderà la lotta per il nuovo governo sono quello estero e quello interno. Capiremo nei 45 giorni che seguono le elezioni, come previsto dalla costituzione turca, se Erdogan troverà un candidato premier su cui nome e progetto far quadrare il cerchio e quali dei due fronti sarà sacrificato dall’AKP per poter governare l’altro fronte in solitudine. Il fronte interno rappresenta una economia in crescita annua media degli ultimi cinque anni di circa il 5%, con tutto quello che ne consegue dal punto di vista del potere economico di un paese che conta più di 77 milioni di abitanti. Il fronte esterno rappresenta, invece, il sogno di una Turchia “ottomana” che aspira ad una egemonia regionale, obiettivo perseguito dall’attuale presidente Erdogan, negli ultimi anni, appoggiando apertamente i fratelli musulmani dei vari paesi della “primavera araba”. Sarà miracoloso trovare un equilibrio ed un’intesa che faccia ripartire la Turchia, dopo questo brusco risveglio da una stabilità che sembrava eterna e che è stata il punto forte dell’AKP da quando Erdogan è salito al potere. Se non sarà trovato un accordo per un governo, sarà necessario tornare alle urne al più presto possibile per dare un governo all’unico paese della regione appartenente alla NATO.