Laggiù qualcuno mi ama, Massimo Troisi e il suo blues nel documentario di Mario Martone

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di Erika Basile

“Tu dimmi quando quando…”: un cerchio che si chiude, lo stacco improvviso e la musica di Pino Daniele che condensa, d’un tratto, emozioni e pensieri accumulati in 128 minuti densi, vissuti avvertendo la presenza fisica di Massimo Troisi. In quel tempo sospeso, è stato lì accanto a noi. A pensarci bene, non se n’è mai andato. Laggiù qualcuno mi ama di Mario Martone è un’avventura emozionante nei luoghi fisici, affettivi e creativi di Massimo Troisi. Le riflessioni del regista, che sceglie di mettersi davanti alla telecamera, si intrecciano con le voci di Paolo Sorrentino, Salvo Picarra, Valentino Picone, Francesco Piccolo, Goffredo Fofi. Ma è soprattutto Anna Pavignano, cosceneggiatrice di quasi tutti i film di Troisi, ad affiancarlo nel viaggio. La sua collaborazione è stata preziosa nella scrittura del documentario: i materiali inediti, da lei forniti, ci consentono di entrare nel “laboratorio” di Troisi, ma anche di riscoprirlo in una sfera più intima e personale. Le voci di Toni Servillo, Silvio Orlando, Massimiliano Gallo, Valerio Mastandrea e Pierfrancesco Favino danno corpo alle sue parole mentre scartabelliamo tra gli appunti scritti a mano. Scriveva, Massimo, scriveva tanto: fissava su carta stati d’animo, pensieri, idee, poesie, riflessioni politiche.
Guardando le immagini, ascoltando le sue parole, leggendo le pagine del suo diario, ci rendiamo conto di quanto faccia parte del nostro sentire e di quello che riferiamo all’arte della comicità e del cinema. I suoi tempi, la sua gestualità, il suo modo garbato e profondo di interpretare i sentimenti lo fanno vivere in un eterno presente. “Massimo Troisi, per me, non era solo un grande attore e un grande comico, – confessa Mario Martone – era un regista di speciale grandezza, i cui film costituivano, a mio avviso, un unico discorso cinematografico. Un cinema che si esprimeva per frammenti, per soprassalti improvvisi, alternava pieni e vuoti. Ora era acceso, ora era stanco. Il cinema di Troisi per me era bello perché aveva la forma della vita”.
Troisi introduce nel cinema italiano qualcosa di nuovo e diverso. C’è un fil rouge che lega i suoi film, da Ricomincio da tre a Il Postino, compresi quelli in cui sono altri registi (Cinzia TH Torrini, Ettore Scola, Michael Radford) a dirigerlo: in ciascuno di essi assistiamo alla crescita e all’evoluzione di Massimo uomo e personaggio. Il rifiuto delle convenzioni e dei codici narrativi tradizionali e l’assoluta libertà con cui mette in scena le sue storie ricordano a Martone i film della Nouvelle Vague, soprattutto quelli di François Truffaut. Massimo gli ricorda il personaggio di Antoine Doinel (Jean-Pierre Léaud), considerato l’alter ego del regista francese, il ragazzo de I quattrocento colpi che nel corso di 20 anni, dal 1959 al 1979, vediamo via via crescere attraverso i film di cui è protagonista. Come Antoine, egli è un antieroe che cerca il suo modo di stare al mondo e di vivere l’amore. Il racconto cinematografico di Troisi è lo specchio del suo mondo interiore, rappresenta gli inciampi e i fallimenti, la spontaneità di un cinema en temps réel, fatto di verità, di rifiuto e ribaltamento dei luoghi comuni, in cui tutto diventa politico in quanto riguarda la vita di ognuno.
Ripercorriamo il suo percorso artistico e umano attraverso i luoghi in cui è vissuto, le sue esperienze teatrali – prima con I Saraceni e poi con La Smorfia – e l’approdo in televisione nel programma “Non stop” (1977-1979). Sono anni in cui la politica permea ogni aspetto della vita, e Napoli, dopo il terremoto del 1980, diviene il centro di esperienze accomunate da un profondo bisogno di cambiamento. Questo desiderio di ribellione si esprime in una stagione creativa straordinaria. In ogni ambito artistico, si cercano nuovi linguaggi, sovvertendo quelli tradizionali, per descrivere il mondo che cambia. Nascono l’avanguardia teatrale di Martone e Servillo e l’esperienza dei Teatri Uniti, quella musicale di Pino Daniele, di James Senese (con il gruppo “Napoli Centrale”), Tullio De Piscopo, Rino Zurzolo, Tony Esposito, e la Nuova Drammaturgia di Enzo Moscato e Annibale Ruccello. Troisi è immerso in quel fermento e lo elabora a modo suo.
Quando nelle sale appare Ricomincio da tre (1981) il magma che ribolle in città invade tutta l’Italia e conquista gli spettatori anche al Festival di Locarno. “Si rideva con Massimo, si pensava con Massimo, si respirava con Massimo”.
Il suo sguardo poetico, sempre leggero e ironico, che rifiuta gli eccessi, conquista tutti, anche chi non comprende il dialetto napoletano. Attraverso la gestualità e la mimica, il ritmo del discorso lento, incerto e continuamente spezzato, e una comicità mai banale racconta la fragilità dell’uomo moderno e la sua difficoltà di comunicare i sentimenti profondi. Un’intera generazione si riconosce in lui, una generazione passata dall’utopia e dalle contestazioni all’insoddisfazione, dal miraggio della liberazione sessuale all’insicurezza nei rapporti con le donne. I personaggi femminili che mette in scena sono indipendenti, forti, rompono gli schemi e fanno emergere il suo senso di inadeguatezza, con cui si confronta e si scontra continuamente. “Il cinema non si fa da soli. Si scopre la propria poetica attraverso la relazione con gli altri”, precisa Martone. Nel caso di Troisi, fondamentale è stato l’incontro e la stretta collaborazione con Anna Pavignano. Lei, torinese, studentessa di psicologia, vicina ai movimenti femministi meno radicali, ha sicuramente contribuito a definire la cifra stilistica di Massimo. La serrata dialettica uomo-donna ha stimolato l’interesse per una serie di tematiche che nel cinema italiano erano state fino ad allora trascurate.
In Le vie del Signore sono finite (1987) l’amore viene rappresentato come un bisogno. La malattia di Camillo (il protagonista) è psicosomatica, è una malattia dell’anima che non sa gestire l’abbandono e non trova altro modo per comunicare il dolore e le emozioni. Il film è “uno strano e ipnotico labirinto”, in cui trovano spazio il disagio esistenziale, la psicoanalisi e la tensione politica. Una tensione mai sbandierata, che si esprime nel modo di leggere i fatti storici e di rappresentare la complessità dei rapporti tra le persone.
Il discorso sull’amore, un amore difficile da realizzarsi, è il nucleo di tutto il cinema di Troisi. Cambia il modo in cui viene affrontato, si evolve, ma resta sempre il perno intorno a cui ruota tutto il resto. “L’amore è esasperazione”, afferma, appare e scompare senza ragione, come racconta nella struggente poesia ‘O ssaje comme fa ‘o core. “E cercando cercando si capisce che Massimo, facendo cinema, inseguiva una verità esistenziale che sempre gli sfuggiva. […] Come se avesse sempre saputo che – come dice un filosofo – è per via della nostra impossibilità di amare che siamo condannati all’amore”. A questo sentimento dedica un vero e proprio saggio cinematografico: Pensavo fosse amore… invece era un calesse (1991) è un compendio di tutte le contraddizioni che caratterizzano l’amore, con “un finale che parla di infinito e di cose che verranno”.
A scandire le fasi del racconto di Mario Martone c’è la musica di Pino Daniele, che con Massimo Troisi condivide una sintonia di vita ma anche lo stesso cuore, grande e fragile. Da “fratelli gemelli”, come si definiscono essi stessi in un’intervista, hanno contribuito a creare una controcartolina di Napoli. La loro amicizia si traduce anche in una collaborazione artistica: Pino Daniele scrive la colonna sonora di Ricomincio da tre, Le vie del Signore sono finite e Pensavo fosse amore… invece era un calesse. Insieme creano capolavori come O ssaje comme fa ‘o core, Saglie Saglie e Quando.
Mentre ascoltiamo, durante il documentario, Je so’ pazzo, Appocundria, Sulo pe’ parla’, il blues di Pino sembra confondersi con quello di Massimo. Ho sempre pensato ai film di Massimo Troisi come a un blues tradotto in immagini, caratterizzato da una metrica, una struttura e un ritmo che lo rendono immediatamente riconoscibile. Il tema viene esplorato seguendo quel ritmo, la malinconia è vissuta fino in fondo e poi superata, fino ad essere trasformata in comicità, una comicità sempre venata di tristezza (come non pensare a Eduardo De Filippo?!). L’ironia mitiga quella sorta di nostalgia, di mancanza che si avverte sempre sottotraccia, nostalgia di un luogo e un tempo immaginari, dove i conflitti possano risolversi e l’afasia espressiva possa sciogliersi nella poesia, come avviene ne Il Postino, permettendo finalmente di raggiungere l’amore.