L’artista Sannita Giuseppe Leone ripropone il culto delle “anime pezzentelle”

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di Angela Cerritello

Singolare culto quello delle “anime pezzentelle”, così come enigmatico oggetto è la scarabattola. Le due cose, in effetti, sono legate assieme da quello che è un antico costume partenopeo. Forse sarebbe meglio dire una visione, che trova il suo germe nella dottrina cattolica per poi allontanarsene, vagare nel folklore e arricchirsi di significati altri. A farsene portavoce è ancora una volta l’artista Giuseppe Leone che con Napoli ha, non a caso, una sorta di affinità creativa ed emotiva e che ha fatto della sua pittura uno strumento demologico assai originale.
La scarabattola, piccola teca in legno e vetro che racchiude gruppi scultori spesso sacri e spesso in materiali facilmente deperibili e quindi da proteggere, è, difatti, con Leone scomposta, analizzata, potenziata, ricomposta. Insomma, Leone, che come una spugna raccoglie il più possibile ciò che guarda e sente, reinterpreta questo classico della cultura napoletana che andava arricchendo case nobiliari, sagrestie e chiese, potenziandosi nel suo significato di totem rituale quando accolto a mo’ di edicoletta votiva nei quartieri popolari. Lì il passante metteva soldi, offriva pegni quasi ad effettuar pagamento ad un ipotetico Caronte. Le offerte servivano infatti come indulgenza per le anime del Purgatorio, per qualche grazia personale, favore chiesto direttamente al santo o alla madonna di turno. L’artista sannita costruisce così un ponte tra ciò che ha attinto dagli anni napoletani e la sua terra altrettanto intrisa di una granitica mistione tra l’elemento folk e quello liturgico. Il suo atelier e la strada in pietra che vi si apre dinnanzi diventano così palcoscenico perfetto di una performance spontanea che coinvolge le abitanti del quartiere, incuriosite dalla presenza di un oggetto insolito e al contempo così affine al loro immaginario cultuale.
Nella sua opera Giuseppe Leone rappresenta proprio tre anime pezzentelle che sono racchiuse nella vetrinetta con alle spalle un Vesuvio color ossidiana e pece. Il nerissimo cratere porta sulla sua silhouette una colata magmatica di parole mute, che come una scritta a fuoco scivolano verso le anime in virtù di fiamme infernali. La scarabattola così assemblata, si muove in due direzioni, quello di sberleffo pop (dimensione che l’artista conosce bene) e quella di caldissimo terreno emozionale. L’immagine all’inizio strappa quasi un sorriso, forse per il richiamo alla pratica dell’inserirvi denaro, cosa che rende l’opera-scultura fortemente inclusiva per l’osservatore. Ad un secondo sguardo, però, si dischiude al sentimento più profondo della pietas e fa sprofondare l’occhio ed il cuore attento in quello che il culto delle anime pezzentelle realmente è.
Per spiegarlo non si può non far riferimento alla Chiesa di Santa Maria delle Anime del Purgatorio ad Arco che potremmo assumere come metafora assoluta di una certa napoletanità. Converge in essa quella doppia natura, sacrale e al contempo pagana, che accompagna da sempre il vivere religioso della città. La splendida chiesa seicentesca quasi si perde sullo stretto passeggio di Via dei Tribunali se non fosse per i due teschietti bronzei che si antepongono alla scalinata di ingresso. Sì, è vero, il teschio altro non potrebbe essere che un canonico memento mori, se non fosse che siamo a Napoli e qui ogni cosa ne nasconde un’altra e poi un’altra ancora, tanto che anche il simbolismo più semplice appare come intricata matassa di cui con pazienza bisogna ritrovare il capo. La stessa chiesa di Santa Maria delle Anime, infatti, cela una sorta di dualismo strutturale. Somiglia ad un gioco di illusioni, quello dove la scatola del mago nasconde un doppio fondo. Se infatti in superfice altare e cappelle risplendono tra le opere di Andrea Vaccaro e di un giovane Giordano, il piano inferiore, o sarebbe meglio dire interrato, nasconde uno straordinario ipogeo, luogo di sepoltura delle suddette “anime pezzentelle”, le anime di colore che non potevano avere, per via dei loro scarsi mezzi economici, degna sepoltura. E’ da qui, e da chissà quanti secoli di sedimentate tradizioni e culti e scongiuri, che trova appiglio un certo modo che a Napoli si ha di concepire la morte, quel fare di tenera empatia tra il “pezzente” in vita e quello ormai estinto, quel lutto conveniente, quella disperazione onesta che segue passo passo il destino della città. L’ipogeo, infatti, di cui i teschietti esterni appaiono dunque come preludio, vede allinearsi tutta una serie di crani e scheletri umani che a primo acchito potrebbero palesarsi come uno spettacolo assai macabro. M qui no, anzi. I teschi, così come accade per il Cimitero delle Fontanelle in Rione Sanità, vengono affettuosamente adottati. Ad essi, o meglio alle “capozzelle” così come sono conosciute in lingua vernacolare, vengono rivolte preghiere, doni, richieste. La capozzella, così come la scarabattola che in essa trova matrice simbolica, è oggetto benigno, intriso di un’aurea mistica, ma familiare. Un veicolo tra il mondo dei vivi e quello dei morti, tra il sacro e il profano, tra il caos del vivere quotidiano con i suoi giornalieri affanni ed un aldilà immobile e perenne. Non c’è il mitico Orfeo in cerca della sua Euridice, ma un nugolo di anime pezzentelle a cui affidare le indulgenze. Leone, allora, si traveste in un certo senso da Caronte, capace di traghettarci con la sua opera al di là del vedere comune, in una dimensione che ha il sapore di una Napoli antica, di ossa e fede, di speranza sgangherata, di onesta credulità.