Lavoro, appunti per il futuro: come coniugare produttività e occupazione con un nuovo umanesimo digitale

115

di Amedeo Lepore

Il problema del lavoro è uno degli effetti più gravi e duraturi della crisi pandemica. La fine dei sostegni uniformi al reddito e del blocco indifferenziato dei licenziamenti può svelare le difficoltà di molti settori produttivi e acuire le tensioni sociali. Questa situazione richiede un rapido dispiegamento delle misure per gli investimenti e l’occupazione contenute nel Piano di ripresa, insieme ad azioni mirate di stimolo alla ricerca attiva e alla domanda di lavoro. La missione dedicata alla coesione e all’inclusione prevede una componente di politiche per il lavoro destinate a incrementare il tasso di occupazione, adeguando l’acquisizione di nuove professionalità e l’occupabilità dei giovani alle mutate esigenze del mercato; a ridurre il disallineamento di competenze necessarie alle imprese, attraverso il potenziamento del sistema duale di istruzione; ad accrescere la consistenza e la qualità delle iniziative di formazione continua. In questo quadro, è contemplata l’attuazione di due riforme per le politiche attive del lavoro e per il contrasto al lavoro sommerso. Tuttavia, per comprendere la portata di cambiamenti che non sono di carattere transitorio, ma rivestono natura strutturale, è necessaria una contestualizzazione di questi fenomeni e una riflessione di fondo. Negli Stati Uniti si è diffusa una ventata ottimistica sulla capacità del lavoro a distanza di aprire una nuova fase di delocalizzazioni, grazie a grandi aziende tecnologiche come Google, Apple e Tesla, ridistribuendo il tessuto produttivo in modo più omogeneo su tutto il territorio, dopo un periodo di forte concentrazione nelle aree costiere più avanzate. Recenti indagini, però, hanno mostrato come questi spostamenti non avvengano su lunghe distanze e il lavoro da remoto stia diminuendo velocemente, perché un numero sempre maggiore di imprese e lavoratori si orientano a svolgere almeno una parte dell’attività in sede. In Cina, invece, molti comparti sono tornati a un funzionamento normale nell’ultimo anno e, benché il lavoro virtuale sarebbe una maniera ingegnosa per affrontare gravi dilemmi interni, non c’è stato un trasferimento massiccio verso di esso, né si è avviato un esame appropriato dei modelli lavorativi post-pandemici. Queste tendenze diversificate fanno presupporre che l’occupazione dei prossimi anni sarà comunque ibrida, tra presenza e lavoro agile, mentre il lavoro a distanza, pur assestandosi su dati più bassi degli attuali, resterà notevolmente superiore ai livelli pre-pandemici. Un’altra fonte di incertezza è costituita dal destino del lavoro di fronte a una trasformazione digitale sempre più incalzante, con la convergenza delle innovazioni tecnologiche della quarta rivoluzione industriale come big data, internet delle cose, 5G e intelligenza artificiale. Secondo il Rapporto 2020 sul futuro dell’occupazione del World Economic Forum, le aziende private si serviranno sempre più di macchine e algoritmi, mettendo in pericolo mediamente il 15% della forza lavoro già entro il 2025. Secondo uno studio della Bank of America, viceversa, le nuove tecnologie aggiungeranno lavoro, attraverso nuove figure professionali, anziché contrarlo. A questo riguardo, Richard Baldwin ha evidenziato che la nuova “grande trasformazione” globotica (la globalizzazione dei sistemi robotici) ha originato una sorta di migrazione telematica, ma può favorire un’integrazione funzionale tra tecnologie avanzate e lavoro umano, purché la transizione dai vecchi ai nuovi mestieri sia regolata. Il rischio insito in questo processo vorticoso è stato descritto da Jean-Baptiste Malet, un giornalista che si è infiltrato nel “migliore dei mondi” di Amazon, descrivendo “un nuovo tipo di lavoro industriale che non esisteva nel ventesimo secolo e in cui l’ideologia e il paternalismo hanno un grande ruolo”, mascherando precarietà e alienazione. Eppure, il modello fordista della grande fabbrica è alle nostre spalle e i cambiamenti in corso non prefigurano l’avvento di un “amazonismo”. Michael Spence ha mostrato vari aspetti dell’impatto dell’automazione e indotto a valutare la complessità di questi fenomeni, poiché la continua creazione di tecnologie abilitanti sposta in avanti i termini del rapporto tra innovazioni e lavoro, combinando produttività e occupazione con un nuovo umanesimo digitale. Il fatto che l’uomo sia una specie altamente sociale si riflette sulla vita economica e l’altro fatto che sia capace di fare molte cose che le macchine non sono ancora in grado di fare, come hanno indicato Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee, non delinea una prospettiva ravvicinata di fine del lavoro, ma rende più avvincente il prossimo futuro.