Lavoro e crescita, giochi pericolosi

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Un piano a medio termine per il Paese. Questo l’obiettivo di Confindustria che il 16 febbraio ha fissato a Verona le sue Assise Generali per “contarsi e contare” mentre la politica sarà alle prese con una campagna elettorale che non promette nulla di buono, almeno dal punto di vista dell’agognata stabilità.
Le tappe di avvicinamento – alle spalle gli appuntamenti di Roma, Milano, Napoli, Firenze, Bologna e da tenere entro Natale quelli di Torino, Venezia, Cagliari, Palermo, Bari – fanno ben sperare. E gli oltre mille associati incontrati dal presidente Vincenzo Boccia lo confermano con il loro entusiasmo.
Un piano per il Paese, dunque. E non a caso in cima alle preoccupazioni dell’associazione c’è il lavoro. Soprattutto ai giovani che sono allo stesso tempo il bene più prezioso e il più mortificato dalla crisi. Un bene che rischiamo di perdere per sempre tra fughe all’estero senza ritorno e delusioni in casa.
Per raggiungere questo obiettivo – che salda la possibile frattura fra imprese e società dal momento che a beneficiarne sono i figli delle famiglie italiane – non c’è altro modo che spingere sul pedale della crescita tenendo a bada la tentazione di agire in deficit per evitare che aumenti il fardello del debito pubblico.
Protagoniste della crescita sono le imprese. E se si vuole che giochino fino in fondo la loro parte bisogna che siano competitive, capaci di fronteggiare la concorrenza internazionale e conquistare nuovi mercati. Altre strade non ce ne sono, scorciatoie meno che mai. Chi pensa o predica il contrario è un illuso.
O in mala fede, come può facilmente capitare quando si cerca di catturare il voto di cittadini rancorosi – secondo la definizione dell’ultimo rapporto del Censis – e quindi poco disponibili a ragionare: facili prede di chi giocando al tanto peggio tanto meglio fanno leva sui peggiori istinti di una popolazione in ansia.
In questo clima d’incertezza e insoddisfazione generale è difficile tenere il punto anche per i politici meglio attrezzati sotto il profilo della cultura economica. E la deriva demagogica rischia di trascinare la campagna verso posizioni tanto attraenti nell’apparenza quanto impraticabili all’atto pratico.
Un rischio che non possiamo correre data la delicatezza del momento, in bilico tra un possibile consolidamento della ripresa e un temibile arretramento se dovessero venire a mancare i supporti che hanno determinato il miglior andamento degli ultimi anni con più pil, più investimenti, più export, più occupazione.
Al governo che verrà si chiede almeno di non fare danni. Il che è una battuta e una richiesta seria contemporaneamente. Il meno che ci si può aspettare è che non si smontino le riforme fin qui realizzate e che hanno determinato i successi (benché parziali) conseguiti. Il giusto è che si provveda a potenziarle.
Al peggio, smontare quanto si è fatto per compiacere una pancia che non usa il cervello, non ci si vuol pensare perché le conseguenze sarebbero così nefaste da farcene presto pentire. Ma a quel punto avremmo perso l’abbrivio e mandata in soffitta la fiducia. Con buona pace dei predicatori e di tutti noi.