Le future relazioni tra gli Stati Uniti e la Corea del Nord dopo il fallimento del vertice di Hanoi

in foto da sinistra Donald Trump e Kim Jong-Un

Non è poi così ovvio che si possa definire, sic et simpliciter, il recentissimo vertice di Hanoi tra Kim Jong-Un, leader della Repubblica Democratica di Corea, e il presidente degli Usa Donald J. Trump, come un semplice e banale “insuccesso”.
O addirittura, come hanno commentato le più semplicistiche tra le fonti giornalistiche internazionali, un insuccesso delle tecniche di Trump quale deal maker.
Qui non si tratta di psicologia spicciola, la questione è geo-economica e strategica.
Anche il leader di Pyongyang Kim Jong-Un, peraltro, è un abilissimo mediatore, ma la questione è, come è ovvio oggi, ben più ampia di quella che, in prima istanza, potrebbe apparire.
E’ stato però proprio il ministro degli Esteri nordcoreano, Ri-Yung-Ho, ad annunciare che le trattative erano state cessate senza un accordo ufficiale.
L’idea iniziale dei dirigenti di Pyongyang era quella di un ritiro immediato di alcune delle rimanenti sanzioni economiche alla Corea Democratica, per poi passare immediatamente allo smantellamento successivo e totale del grande reattore di Yongbyon.
Dopo questa prima rottura, il presidente Trump ha poi affermato che Kim Jong-Un avrebbe anche accettato di smantellare, con immediato inizio, il reattore di Yongbyon, ma con una esplicita affermazione di eliminazione delle varie, rimanenti e soprattutto, tutte le sanzioni commerciali.
La parte nordcoreana ha infine puntualmente risposto agli Usa che la loro richiesta riguardava comunque, anche in questa seconda e già negativa fase, solo e comunque il relief da una parte delle sanzioni.
Occorre, qui, rifarsi ad un vecchio esempio di scuola: la progressiva normalizzazione delle relazioni commerciali tra gli Stati Uniti e la Repubblica Popolare Cinese.
Ci furono, fin dall’inizio delle trattative politiche tra Washington e Pechino, dei “gruppi di contatto” che non risolsero immediatamente tutte le questioni, commerciali e militari, sul campo, ma impostarono la loro progressiva armonizzazione nell’oscillazione tra i due interessi nazionali.
I “gruppi di contatto” ci sono anche oggi, tra Pyongyang e Washington.
Fu George Bush, nominato dal presidente Gerald Ford, il primo capo dell’Ufficio Diplomatico degli Usa a Pechino, che non era ancora una vera e propria ambasciata.
Dopo, e non è un caso, George Bush, futuro 41° presidente degli Stati Uniti, fu nominato a capo della C.I.A.
All’epoca, lo si ricorderà, Washington riconosceva simultaneamente sia Taiwan che Pechino, ma le relazioni commerciali, studiate con estrema attenzione da entrambe le parti, iniziarono ufficialmente solo nel 1979, con la successiva e determinante entrata della Cina Popolare nel WTO, nel 2001.
Ma già fin dal 2005, quindi non è certo un problema di oggi, gli Usa avevano uno squilibrio commerciale con la Cina di ben 202 miliardi di usd, quindi gli Stati Uniti erano troppo dipendenti dalle importazioni cinesi, e quindi, ancora, lo squilibrio commerciale di Washington con Pechino si mostrava chiaramente nella forte perdita di posti di lavoro americani.
Come è stato fatto con la Cina, quindi, ma in periodi ragionevolmente più brevi, accadrà con la Corea del Nord.
Ecco, è questo il punto: sono stati comunque già creati contatti, tra il personale e l’ufficiale, ma solo in un contesto bilaterale, e con diretto riferimento sia a Trump che a Kim Jong-un, per la risoluzione delle controversie economiche, delle sanzioni attuali, delle future relazioni economiche e finanziarie bilaterali tra Washington e Pyongyang.
Ma i tempi saranno lunghi, perché il triangolo è quello tra Pyongyang, Mosca, Pechino.
Se gli Usa pensano che Kim Jong-Un corra da solo questa gara, o che si accontenti di essere un piccolo, ma isolato, Paese ricco, come il Vietnam o il Laos, si sbagliano di grosso.
Le sanzioni degli Usa contro la Corea Democratica, come quelle tipiche della Prima Guerra Mondiale, Trading with the Enemy Act, furono imposte, tanto per chiarire la loro complessa storia, a Pyongyang fin dal 1950.
Ma non bisogna nemmeno dimenticare che una parte di queste restrizioni commerciali sono state già tolte, nell’ambito dell’Agreed Framework del 1995 e, come si ricorderà, sempre nell’ambito dei Six Party Talks si arriverà ad un accordo bilaterale, temporaneo ma importante, tra gli Usa e Pyongyang, proprio sui test dei missili a lunga gittata, e ci sarà quindi un ulteriore relief economico, già nel giugno 2000.
Quindi, sostanzialmente, abbiamo a che fare con una vendita ancora proibita di potenziali beni o servizi dual-use, tali da poter entrare nel tradizionale Wassenaar Arrangement, di cui sono membri sia gli Usa che la Corea del Sud; mentre gli importatori Usa di prodotti, di ogni genere, provenienti dalla Corea del Nord devono ancora oggi, prima di tutto, chiedere il permesso all’US Treasury Office of Foreign Assets, che chiede una certificazione riguardante il fatto che tali prodotti non sono stati elaborati da enti e imprese della Corea del Nord che siano collegati alla proliferazione nucleare.
Le richieste di trading, dicono i tecnici nordamericani, sono pochissime ogni anno e, come ci sembra di capire, sono più gli impedimenti fisici e produttivi che non quelli legali, a impedire davvero la crescita dell’interscambio tra Usa e Repubblica Democratica Popolare di Corea.
Ed è proprio questo che si sta studiando, in contesti riservati e unicamente bilaterali.
Naturalmente, la dimensione eminentemente politica della situazione è tale che, qualora si ritornasse alla tensione missilistica o nucleare tra Pyongyang e Washington, tutte le trattative commerciali verrebbero bloccate e, poi, immediatamente annullate.
Comunque, l’interscambio è ancora scarso, la Corea del Nord è una delle pochissime nazioni che non ha lo status giuridico-commerciale Usa di NTR, Normal Trade Relations, e in ogni caso l’export di Pyongyang cade ancor oggi nella “colonna 2” delle tariffe commerciali, quelle definite dallo Smooth-Hawley Tariff Act del lontano 1930.
Tariffe pesanti, quelle del 1930, sui beni a maggiore quota di forza-lavoro e a bassa specializzazione, come gli abiti e i tessuti, proprio il settore in cui Pyongyang darà molto filo da torcere, in futuro.
Si noti, però, che la Cina stessa, che ha lo status di NTR permanente, lo ha ottenuto solo tramite il WTO, non con una trattativa diretta con gli Usa.
Ma la Corea del Nord non ha mai mostrato, finora, alcun interesse nel WTO.
Qui, gli Usa non sono certo d’accordo.
Washington ritiene che, sia per il vecchio accordo Multifibre sui tessili, che è già cessato nel 2005, e che ha creato (dopo il 2005, ovviamente) il grande boom del tessile cinese, che per tutto il resto, l’entrata di Pyongyang nel WTO sarebbe l’ideale per lo scambio bilaterale tra Usa e Corea del Nord.
Ma Pyongyang non “riempie” le sue quote tessili nemmeno in EU, dove non ci sono sanzioni.
Il problema non sono, quindi, solo le sanzioni commerciali di Pyongyang con gli USA, ma il grande rifinanziamento globale del sistema produttivo non dual use di tutta la Corea Democratica e Popolare.
Ne ho già parlato altrove: occorrerà presto una grande banca di affari globale, tra Usa, alcuni Paesi europei, Russia e Cina, che si impegni a modernizzare il sistema economico della Corea del Nord.
Ovvio poi, se andiamo a valutare la questione del fallimento del summit in termini squisitamente strategici, che il tema di fondo è quello di Pechino, non di Pyongyang.
Se pensiamo, infatti, che la Cina sta, come ogni indicatore sembra confermarci, chiudendo a breve la questione delle sue tariffe commerciali con gli Usa, è ovvio dedurre che Pechino, in prima battuta, voglia sistemare i suoi affari con Washington, e poi, magari, dare la luce verde a un nuovo sistema economico internazionale incentrato intorno a Pyongyang.
Ma che dipenderà da Pechino, non da Washington.
Sistema, peraltro, che potrebbe anche sovrapporsi o contrastare con gli interessi attuali di Pechino.
Nel tentativo di dividere la Corea del Nord dalla Cina Popolare, Trump ha quindi fallito.
Altro che deal maker, qui le operazioni a Hanoi le ha condotte, probabilmente, più la Cina che gli stessi Usa.
Ecco quindi il senso della reazione finale di Kim Jong-Un, che ha detto chiaramente che nulla sarà smantellato, a Yongbyon, se non ci sarà il pieno e totale relief da tutte le sanzioni, quelle che ancora oggi pesano sul commercio bilaterale Usa-Corea del Nord.
La sostanza è questa, quindi: la Cina ha fatto capire che, senza una trattativa preesistente e globale con la Cina, non si fanno accordi commerciali di nessun tipo, in Asia.
Non a caso il summit si teneva ad Hanoi, in quel Vietnam un tempo inimicissimo per gli Usa dove Washington ha, di fatto, innescato la nuova, attuale, crescita economica.
Il segnale era chiaro: se farete come i vostri vecchi compagni vietnamiti, la vostra economia crescerà, e molti dei problemi strutturali del sistema nordcoreano sparirebbero rapidamente.
Peraltro, ci è noto che tutti sappiano, forse con la sola eccezione delle intelligence statunitensi, che la Corea del Nord prosegue nel mantenimento rebus sic stantibus dei suoi siti nucleari e missilistici.
Ed è esattamente questo quello che vogliono sia la Federazione Russa che la Cina Popolare, in questa fase, a meno di non essere loro stessi i nuovi broker del nuovo sviluppo economico nordcoreano, che non dovrà essere mai comandato dagli interessi Usa, ma da quelli dei due grandi Paesi asiatici e euroasiatici.
In Cina, poi, sta cambiando la struttura demografica e, quindi, il modo di produzione.
La popolazione sarà presto solo al 50% in età lavorativa, quindi Pechino ha due sole strade davanti per aumentare il tasso di crescita potenziale: incentivare la partecipazione della popolazione al mercato del lavoro e/o aumentare la produttività totale dei fattori di produzione.
Le imprese cinesi, poi, dato il loro attuale indebitamento e la presente scarsa liquidità disponibile, non possono ancora investire a fondo nell’aumento della produttività totale dei loro fattori.
Ecco quindi la necessità, per Pechino, ma anche per Pyongyang, di marciare divisi ma colpire uniti: la Cina Popolare non potrà mai abbandonare la Corea del Nord, soprattutto da un punto di vista economico, ma Pyongyang sarebbe folle se, accettando le sirene commerciali nordamericane, pensasse di poter fare a meno della continuità strategica, finanziaria, commerciale con Pechino.

Giancarlo Elia Valori