Le tensioni attorno al Presidente Donald J. Trump

Il rapporto tra il presidente Trump e quello che si suole chiamare, con terminologia di origine sovietica, lo “stato profondo” americano è sempre più complicato e conflittuale. Il perché è presto detto: Trump vuole un rapporto il meno teso possibile con la Federazione Russa, mentre lo “stato profondo”, rappresentato in gran parte anche dalle 17 Agenzie di intelligence USA, intende ripristinare un confronto duro e globale con Mosca, interdire la realizzazione del progetto eurasiatico russo con la Cina, regionalizzare Pechino e chiudere, infine, la Russia tra il Mar Nero e la Polonia.
E’ forse questa la prima volta che un Presidente degli Stati Uniti viene sistematicamente delegittimato dai media ma, soprattutto, indirettamente, dalle strutture informative del suo Paese.
L’intelligence Usa è ormai parte del gioco politico, fenomeno che riguarda anche altri Servizi occidentali, e opera sul piano informativo e dei mass media con le tecniche ben note: disinformazione, manipolazione mediatica, fake news, diffamazione, destabilizzazione informativa e, diremmo, quasi una sorta di guerra psicologica contro il proprio stesso Paese.
Il meccanismo della “gola profonda” anti-Trump è questo: una fonte anonima, che è probabilmente parte dell’amministrazione presidenziale, informa sia il New York Times che il Washington Post, a giorni alterni ma con un ritmo evidentemente preordinato, dei retroscena, veri o presunti, del Presidente e dei suoi principali collaboratori.
A questo punto, la notizia viene ripetuta e sottolineata dalla CNN, dalle varie TV nazionali e, da qui, riportata nelle headlines di tutti i media mondiali.
Le manifestazioni durante l’inaugurazione della Presidenza, il 27 gennaio scorso, che sono state coordinate e globali con almeno, così riportavano i media di area democratica, due milioni di partecipanti, quelle all’inizio della sua campagna, alla metà di giugno 2016, la rivolta antitrumpiana di Richmond, in Virginia (l’antica capitale dei Confederati, peraltro) del 14 ottobre, le sistematiche e multiple interruzioni dell’allora candidato repubblicano nel Michigan a Dicembre, per non parlare del tentativo di assassinare Trump posto in atto, il 18 giugno 2016, da Michael Steven Sanford a Las Vegas.
Tutti segnali di un progetto messo bene a punto prima che Donald J. Trump arrivasse alla Presidenza.
Quindi, viene usato il mix classico di defamation, anche sul banale piano estetico o simbolico, per poi destabilizzare l’attuale Presidenza USA con notizie manipolate e tali da procurare allarme, sempre però con un paradigma preciso: Trump è un “amico dei russi” e quindi un nemico giurato degli Stati Uniti.
Si crea quindi, e questo è uno dei risultati delle fake news, il collegamento simbolico tra “essere amici degli Usa” ed essere quindi “nemici della Russia”.
Niente ci vieta quindi di pensare che, oggi, il vecchio “complesso militare-industriale” stia programmando un riarmo costoso, che qualche ingenuo immagina essere un forte stimolo per l’economia USA, contro unicamente la Federazione Russa.
E questo spiegherebbe anche la continua destabilizzazione informativa della presidenza Trump, che invece pensa ad un nuovo rapporto con Mosca a partire dalla stabilizzazione della Siria, una nuova divisione del mondo in aree di influenza.
L’esatto contrario, questo, della linea strategica della candidata democratica e segretario di Stato Hillary Clinton, che aveva impostato tutta la sua politica estera e molte delle sue proposte future sul rovesciamento vero e proprio di Bashar el Assad e sul conseguente sostegno a tutta la galassia jihadista sirio-iraqena, in correlazione strategica con l’Arabia Saudita, gli Emirati e la Turchia.
Già, ma esiste, ne abbiamo già parlato, un ottimo rapporto tra Mosca e Riyadh, che pure hanno posto in correlazione i loro prezzi del petrolio e hanno in corso una trattativa per la vendita di armi russe ai sauditi, che le hanno viste all’opera nella vetrina pubblicitaria, efficacissima, del conflitto siriano.
Le fake news, che un recente studio ha riportato essere il 35,8% di tutta la comunicazione politica nordamericana, hanno però una origine storica ben precisa: il negazionismo riguardo alla Shoah.
Il modello negazionista, per quanto riguarda la distruzione degli Ebrei europei, per usare il titolo di un vecchio e ancor utile libro di Hilberg, ha una sua logica intrinseca: si prendono fatti e fenomeni non essenziali, li si porta dallo sfondo al centro dell’attenzione e si costruisce una controdeduzione non oggettiva tra questi e i fatti storici.
Che vengono selezionati tra quelli più favorevoli o innocui.
La manipolazione informativa inizialmente non nega, ma banalizza e riduce: non sono stati sei milioni le vittime dei campi di sterminio, si afferma per esempio; e da ciò deriva, con un salto logico improvviso, che allora non è avvenuta alcuna Shoah.
Da pochi a nessuno, e da nessuno ad una causa fittizia del non-fenomeno. Che sostituisce quello vero perché rappresenta una quantità maggiore di “fondamenti”, di cause fittizie.
Nel caso delle fake news attuali, invece, si costruisce una deduzione falsa da fatti veri, parzialmente veri; e si sostituisce questa deduzione a quella vera e reale.
Per farlo, serve anche il “rumore” informativo, ovvero la continua ripetizione di massa della notizia falsa, ennesima attuazione del vecchio proverbio di Talleyrand: “calunniate, calunniate, qualcosa resterà”.
Frase che si ritrova, peraltro, anche nel “Barbiere di Siviglia” di Rossini, pronunciata da Don Basilio.
La dezinformatsja sovietica era tutta un’altra cosa: copriva intenzioni pericolose con tratti benevoli e amichevoli.
Anch’essa era controfattuale, ma non deformava i fatti, ne creava semplicemente di nuovi e positivi.
Si pensi per esempio alla propaganda a favore del nuovo segretario del PCUS Andropov, allora capo anche del Primo Direttorato Centrale del PCUS.
Il nuovo leader “amava il jazz”, “leggeva Goethe”, era definito ossessivamente come “riformista”.
Anche oggi, in Occidente, il termine “riformista” è strumento primario di guerra psicologica, dato che non si specifica mai quali siano le riforme, appunto.
Nel caso di Trump, tornando all’attualità, le fake news sono credute immediatamente vere poiché si è creato ad arte un odio diffuso contro il Presidente USA, che “rende vere” le notizie false le quali, comunque, lasciano un ulteriore alone di astio nei confronti di Trump anche quando si siano rilevate successivamente come fake.
Siti specializzati, come il Palmer Report, diffondono notizie false o inverificabili, come le azioni di qualche procuratore contro il Presidente, che arrivano ai media e da lì fanno da conferma pavloviana all’odio precedentemente coltivato contro lo stesso Trump.
Come appunto ci ha detto Pavlov, sia l’odio che l’amore sono “riflessi condizionati” e la notizia, vera o falsa che sia, rafforza o diminuisce il condizionamento di un riflesso, sia conscio che inconscio.
Da questo punto di vista, detto tra parentesi, la teoria pavloviana del riflesso condizionato è più utile e approfondita di quella freudiana del “complesso”.
Il caso di specie della fake news, quello politicamente più rilevante, riguarda comunque la recente visita del ministro degli esteri russo Lavrov al presidente nordamericano.
Il 15 Maggio il Washington Post pubblica infatti la notizia, non verificabile, del passaggio di una serie di notizie top secret, da parte di Trump, al ministro degli Esteri russo, che aveva visitato il capo dell’amministrazione Usa accompagnato dall’ambasciatore di Mosca Serghiei Kisliak.
Si dice, poi, che Trump abbia “bruciato” una fonte del Mossad israeliano riferendo a Lavrov che l’Isis-Daesh intenderebbe utilizzare computer portatili a bordo degli aerei di linea per poi inserirvi degli ordigni miniaturizzati.
Altre fonti, più affidabili, ci dicono che l’informazione classificata che Trump ha concesso a Lavrov riguarderebbe le vaste e nuove capacità israeliane di intercettazione di segnali e di comunicazioni operative.
Che, peraltro, sospettiamo siano già note a Mosca, almeno per deduzione, visto il contatto stretto tra le Forze russe in Siria e i comandi militari di Israele.
Queste tecnologie nuove di Gerusalemme permetterebbero il monitoraggio anche delle operazioni militari e di intelligence più clandestine e riservate.
Però è palpabile il riserbo, la freddezza e la rabbia dei Servizi israeliani, che peraltro temono che la Federazione Russa possa far trapelare qualcosa di queste nuove tecnologie ai siriani o, peggio, alle truppe iraniane operanti in Siria.
Peraltro, vi è anche la possibilità di operazioni congiunte, in futuro, tra Usa e Giordania dirette verso il territorio siriano, dato che Washington non dimostra di essere ancora soddisfatta delle nuove zone di “cessate il fuoco” in Siria, gestite da Russia, Iran e Turchia.
I russi guardano, oggi, con molto scetticismo i piani nordamericani per una offensiva contro il Daesh-Isis, piani che dovrebbero integrare anche i curdi.
Molti media USA hanno ipotizzato quindi che i Servizi collegati a quelli nordamericani non vogliano più collaborare con Washington, per paura di essere a loro volta “bruciati”.
Naturalmente, sia Netanyahu che Theresa May ribattono a questa ipotesi-fake news riaffermando la solidità dei rapporti tra le loro intelligence e quella statunitense.
L’attuale tensione tra Trump e lo “stato profondo” USA è quindi molto semplice da spiegare: si tratta di una guerra civile con altri mezzi.
Sul piano giuridico, la Costituzione USA definisce però il Presidente come “il comandante in capo” che può, quindi, disseminare informazioni riservate a chiunque egli ritenga utile.
Putin, che è un vecchio dirigente dei Servizi russi, ironizza poi sulla questione affermando, il 17 Maggio, durante un incontro con il presidente del consiglio Gentiloni, che potrebbe fornire al Congresso USA persino i verbali dell’incontro tra Trump e Lavrov.
Altra notizia inverificabile, ma generatrice di sospetto e sfiducia, come spesso è il caso delle fake news, riguarda la solita fonte anonima che dice al New York Times, stavolta, come Trump avrebbe “cercato di ostruire il corso della giustizia” facendo pressioni sul FBI perché interrompesse le indagini sui possibili contatti con la Russia dell’ex consigliere per la sicurezza nazionale Michael Flynn.
Se, in anni ormai lontani, un magistrato avesse accusato il capo dell’Ufficio Affari Riservati del Viminale, Federico Umberto d’Amato, di “parlare con i sovietici”, sarebbe stato coperto di risate.
Con chi deve allora parlare un dirigente della sicurezza nazionale di un Paese così importante?
Con i verdurai?
Si parla, anche e soprattutto, con il nemico, perché è con lui che devi trattare, non con l’amico.
Una strana teologia gnostica e puritana aleggia quindi oggi nella mentalità americana, dove ogni contatto con ciò che si ritiene “male” viene negato e proibito a priori.
L’antimachiavellismo, a meno che non sia ironico come quello di Federico II di Prussia, genera mostri.
E’ questo il risultato, con ogni probabilità, ma nello specifico ambito dell’intelligence, della “chiusura della mente americana” descrittaci da Allan Bloom nel 1987.
Tornando al caso FBI, le stesse fonti anonime riportano però che il Presidente Trump aveva formulato “la speranza” che il direttore lasciasse “cadere la questione” poiché Flynn è “un brav’uomo”.
Senso diverso, ma la fake news rifiuta sempre le sfumature e parla sempre al presente indicativo.
O al passato remoto.
Ovvio che, se un Presidente Usa tentasse di ostacolare la giustizia, dovrebbe essere posto sotto impeachment, ed è proprio questo che lo “stato profondo” nordamericano desidera, al più presto, ovvero far fare a Trump la fine di Nixon.
Troppi soldi girano su certe questioni politico-militari, il mondo saudita e sunnita paga benissimo e si ricordi qui che i finanziamenti di Riyadh alla Clinton Foundation sono stati calcolati tra i 10 e i 25 milioni di Usd; mentre “gli amici dell’Arabia Saudita” cofondati da un principe locale, hanno dato un altro milione e, successivamente, altri 5 milioni di Usd alla Clinton Foundation.
Kuwait, Qatar, il finanziatore primo dell’Isis-Daesh, gli Emirati Arabi Uniti hanno dato rispettivamente, sempre alla Fondazione Clinton, dai 5 ai 10 milioni di Usd.
Non sarebbe quindi inutile il progetto, che Trump dovrebbe annunciare tra poco, il prossimo 22 (e questa non è una fake news) di una alleanza arabo-musulmana tra i 17 leader del mondo sunnita e gli Usa.
Solo il presidente egiziano non ha accettato, almeno per ora, la proposta di questa nuova “NATO” islamo-araba e l’obiettivo, chiarissimo, è quello di unire gli sforzi di tutto l’universo sunnita contro il Daesh-Isis e il jihad della spada.
Teheran ritiene, peraltro, che tale nuova alleanza sia rivolta essenzialmente contro l’Iran e le aree sciite, ed anche questo non è certo un errore analitico.
Ma, tornando a Trump, è difficile che egli possa sopravvivere a questo fuoco di fila di notizie false, manipolate, parzialmente vere, maliziose o ambigue.
Per la prima volta, un grande Paese come gli Usa si destabilizza da solo per evitare che un presidente regolarmente eletto gestisca la piattaforma politica con cui ha vinto le elezioni.
In tutti i Paesi occidentali ci sembra di capire che le vecchie èlites mondialiste e globalizzatrici, viste le tensioni attuali, vogliano fare presto a ritornare al potere.
Più va avanti il tempo e il meccanismo che ha generato la brexit, il successo della Le Pen in Francia, il boom elettorale dei cosiddetti “populisti”, sciatta definizione che è anch’essa di per sé una fake news, date le profonde differenze tra Paesi e partiti, la palese manipolazione elettorale in Austria, ci fa pensare che, davvero il tempo di sopravvivenza delle èlites globaliste sia al minimo,
Di qui la voglia di far presto, in tutti i modi.
E con tutti i mezzi.

Giancarlo Elia Valori