L’imprenditorialità non è un’ambizione

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Un sondaggio del luglio 2018 sul lavoro che si vorrebbe fare vede, in Italia, la preferenza accordata al pubblico impiego (col 28% delle risposte, tredici punti percentuali in più rispetto al 2016), mentre solo il 10% (tre punti in meno sul 2016) aspira ad essere imprenditore. Anche tra gli studenti che hanno raggiunto l’alto gradino dell’istruzione universitaria, non ha grande attrattività la creazione d’impresa. Secondo i dati di fonte OCSE, tra i fondatori di startup innovative in Italia, gli studenti universitari sono il 6% contro il 13,6% del Canada e il 9,4% della Germania. Per di più, l’eccesso di adempimenti burocratici è un virus che fiacca i nuovi imprenditori e li spinge – per circa il 30% stima il rapporto Startup Heatmap Europe 2016 – a imboccare vie di fuga verso l’estero.
Il caso italiano è emblematico del paradosso della povertà in mezzo all’abbondanza. Vale a dire, la povertà dell’imprenditoria trasformativa, quella che promuove un rinnovamento fondamentale, nonostante la presenza di imprese affermate e ricche di risorse. Esse, particolarmente nel Nordest del paese, sono una forza produttiva tale che l’Italia si vanta di essere la seconda potenza manifatturiera in Europa dietro alla Germania. Ricche e con le mani che tengono ben strette le redini del comando, quelle imprese non intendono essere destabilizzate da startup ben finanziate che si presentano come specie mutanti dell’affermata comunità imprenditoriale. Se non alle startup che appaiono in guisa di mostri promettenti e di mutanti vitali, come direbbe il filosofo e studioso dei teoria dei sistemi Erwin Laszlo, eventualmente le imprese ricche di risorse prestano attenzione alla creazione d’impresa che contribuisce a incrementare le loro catene del valore.
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