L’Iran e il nucleare dopo l’uscita degli USA dal JCPOA

La prima implementazione operativa dell’Accordo tra il P5+1 e l’Iran, ovvero il Joint Comprehensive Plan of Action, firmato il 15 luglio 2015, risale al 16 gennaio 2016.
I dati dell’ultima relazione scritta dalla IAEA sulle strutture nucleari di Teheran, testi che arrivano con periodicità trimestrale, afferma alcuni temi interessanti e nuovi: la costruzione del reattore di Arak ad acqua pesante, per esempio, è stata bloccata dal governo iraniano.
Inoltre, la repubblica sciita non ha proseguito, volontariamente, la sperimentazione dei macchinari utili ad operare con le centrifughe di tipo IR-40 che erano state inizialmente progettate per Arak.
I materiali tecnologici e il combustibile nucleare che dovevano essere usati per Arak sono stati, peraltro, conservati in luoghi sicuri e certi, sotto il continuo controllo della International Atomic Energy Agency viennese.
Peraltro, la repubblica di Teheran ha sempre e continuativamente informato l’Agenzia della presenza e produzione di acqua pesante presso lo Heavy Water Production Plant di Khondab, vicino ad Arak, che dovrebbe produrre circa 16 tonnellate di acqua pesante all’anno.
Sono dati IAEA, ma sono confermati anche dalle fonti ufficiali e non della repubblica iraniana.
L’undici febbraio del 2018, la IAEA ha poi verificato che l’impianto di Khondab era attivo e il totale di acqua pesante detenuto da Teheran arrivava quindi a 117,9 tonnellate.
E ancora, la repubblica sciita non ha svolto, sempre secondo l’Agenzia viennese, alcuna attività sospetta presso il Reattore di Ricerca vicino Teheran nonché nella struttura per la elaborazione dei radioisotopi di Iodio, Molibdeno e Xenon, situata anch’essa a Nord della capitale, laboratorio che è il principale organismo per la produzione nucleare dell’Iran attuale.
Sempre a detta dell’Agenzia viennese, l’Iran non ha portato avanti alcuna attività oltre i limiti imposti dal JCPOA in alcuna delle altre facilities nucleari che sono state ispezionate dalla IAEA.
Peraltro, data la precisione dell’Agenzia di Vienna, sarebbe molto difficile che l’Iran potesse mantenere altri laboratori nucleari del tutto segreti e non tracciabili dai tecnici della IAEA.
A Natanz vi sono ancora, comunque, 5060 centrifughe IR-1, organizzate in trenta “cascate”.
Le IR-1 estraggono il 3,5% dell’uranio naturale ivi introdotto, ma sempre a basso arricchimento.
Esse sono peraltro basate sulla vecchia tecnologia pakistana delle P1, di antico design olandese.
Alcune centrifughe vecchie o rotte sono state sostituite, altre hanno estratto isotopi fino a oggi, per un totale di 300 chili di uranio arricchito di tipo LEU (Low Enriched Uranium).
Sei “cascate” di centrifughe, poi, per un totale di 1044 elementi, sono ancora attive a Fordow; ma tutte le macchine dei sistemi nucleari di Teheran sono state controllate stabilmente e ripetutamente, con le migliori tecnologie oggi disponibili, dall’Agenzia viennese.
Quindi, come dichiara sempre l’ultimo documento disponibile alla IAEA sull’Iran, la repubblica sciita, pur avendo ormai rifiutato la linea dell’Imam Khomeini che il nucleare sia il “prodotto del diavolo”, si è sistematicamente adeguata alle richieste dello JCPOA.
Ma, quindi, quali sanzioni Trump vuole mettere in atto contro la Repubblica sciita di Teheran?
Eccole: sanzioni, prima di tutto, sull’acquisto e sull’uso, da parte del governo iraniano o di privati cittadini iraniani, di dollari emessi dagli Usa, sul commercio da parte della repubblica sciita di oro e di altri minerali preziosi, sull’acquisto diretto o indiretto o sul trasferimento in Iran di grafite e di altri minerali lavorati o meno, come l’alluminio, l’acciaio, il carbone (che comunque non è un metallo, ovviamente) e infine gli Usa sanzionano il trasferimento di software per le imprese, di qualunque tipo siano, in Iran.
Poi, le sanzioni Usa di nuovo tipo saranno applicate sulle “rilevanti” operazioni commerciali (ma nessuno sa misurare precisamente questa rilevanza) e per l’acquisto di moneta iraniana, o sul mantenimento di fondi o depositi in rial fuori dalla Repubblica sciita, poi ancora vi sono sanzioni sull’acquisto o la vendita di titoli del debito pubblico iraniano, infine altre norme restrittive riguardano perfino il settore automobilistico della repubblica sciita.
Settore automotive che ha prodotto, nell’ultimo anno, ben 1,5 milioni di auto.
Non dimentichiamo nemmeno, qui, le ulteriori sanzioni sui tappeti di ovvia produzione iraniana, sul cibo tradizionale (pistacchi, soprattutto) ma, in particolare, sui traffici portuali iraniani all’estero, infine su tutte le transazioni riguardanti il petrolio.
E qui arriviamo al cuore del problema nucleare di Teheran, ovvero alle sanzioni sulle transazioni finanziarie che riguardino la Banca Centrale dell’Iran, sulle informazioni commerciali riguardanti le banche e i clienti della repubblica sciita, sulle assicurazioni e riassicurazioni di ogni genere e, infine, sul settore energetico, il cuore economico, appunto, di Teheran.
Se gli acquisti di petrolio iraniano sono stati diminuiti “in quantità significative” da parte di Terzi non iraniani, genericità pericolosissima per gli europei, allora il Tesoro Usa potrebbe non imporre le sanzioni ai soggetti terzi che commercino con l’Iran.
Un ricatto chiaro diretto alla UE, in altri termini.
Le sanzioni sul petrolio esportato dall’Iran sono state messe in atto, la prima volta, nel 2012.
Per il famoso terrorismo, lo si ricorderà, quel “terrorismo” in cui operavano con larghezza uomini e mezzi di tutti i Paesi arabi e della Turchia, seconda forza armata della NATO.
Ma torniamo all’economia del petrolio.
Qui si tratta, e le cose non cambiano molto nel passaggio dalla Presidenza Obama a quella di Donald J. Trump, di circa il 20% della produzione iraniana di idrocarburi che viene oggettivamente sanzionato.
Dai 500.000 barili al giorno al milione, in altri termini.
Ovvero ancora, in termini finanziari, oltre un miliardo e mezzo di Usd in meno ogni mese, sempre ai prezzi oggi correnti del barile.
Prima delle nuove sanzioni, prevedendo il clima imposto dall’attuale presidente repubblicano degli Usa, l’Iran aveva già spinto la sua produzione di greggio fino a 2,7 milioni di barili/giorno.
Intanto, le questioni legate alle nuove sanzioni alla repubblica sciita iraniana non saranno mai del tutto “operative” come invece furono quelle del 2012; e questo solo perché c’è un nettissimo disaccordo tra la UE e gli Usa; e i tempi sanzionistici saranno, prevedibilmente, più lunghi del solito.
Intanto, la domanda di greggio sta crescendo, data le restrizioni dell’OPEC e della Federazione Russa alle nuove estrazioni e, non dimentichiamolo, alla crisi del Venezuela.
Le imprese che saranno certamente colpite dalle sanzioni americane sono sicuramente molto importanti e per i grandi affari che già si delineavano nel 2017.
Vi sono la Boeing e la Airbus, con la seconda di queste che ha già consegnato suoi aerei all’Iran, ma sempre pochi rispetto ai cento già programmati da Air Iran e da Aseman Lines.
Un contratto, questo, da 19 miliardi di Usd per la compagnia di bandiera di Teheran e per altri 17 per la Aseman.
La General Electric ha anch’essa ricevuto ordini di rilievo, dai suoi clienti iraniani, per le infrastrutture petrolifere e le linee di trasporto fisse degli idrocarburi.
Poi, come era prevedibile date le recenti reazioni esplicite di Emmanuel Macron, tra i danneggiati, nella vasta business community globale, vi è la francese Total.
La multinazionale petrolifera di Parigi ha un contratto con la cinese CNPC che vale 2 miliardi di Usd, per sviluppare il campo di petrolio e gas naturale off shore di South Pars.
La Total ha già speso 90 milioni per tener fede alle clausole di tale contratto, mentre la compagnia statale iraniana non compenserà, ovviamente, i partecipanti stranieri fino a che non inizierà la produzione.
Ma c’è anche la Volkswagen e il gruppo automobilistico francese PSA.
I tedeschi avevano ricominciato a vendere auto agli iraniani fin dall’anno scorso, ma dovranno cambiare presto strategia in quel mercato, peraltro molto promettente.
Aumenterà stabilmente, comunque, e in tutto il mondo, il prezzo della benzina e degli altri idrocarburi, da trazione o da riscaldamento.
Il gioco delle restrizioni all’Iran ora entra, quindi, nel campo dell’Arabia Saudita, uno dei veri vincitori del giro di sanzioni che gli Usa hanno lanciato in questi giorni contro Teheran.
Il ministro del petrolio di Riyadh ha già affermato che “si impegna a mantenere la stabilità dei mercati petroliferi”.
E il Regno, aggiunge ancora il ministro Khalid al Falih, lavorerà con tutti coloro, fuori o dentro l’OPEC (la precisazione è sottile e importantissima) che intendono mitigare gli eventuali danni dalle limitazioni future della disponibilità petrolifera.
L’Iran ha prodotto, nell’aprile scorso, circa 3,8 milioni di barili al giorno, ma nessuno può prevedere quando e come la estrazione di petrolio, in quel Paese, dovrà davvero diminuire.
Stiamo osservando, quindi, uno spostamento artificiale dei mercati energetici dall’Iran all’universo filosaudita che, certamente, favorisce anche i produttori Usa di shale oil and gas, che hanno bisogno di prezzi abbastanza elevati, al barile, per creare margini e reinvestire i loro capitali, almeno a breve periodo.
Ma è anche probabile che molti Paesi consumatori di gas e petrolio iraniano avranno poco a che fare con questo round sanzionistico nordamericano.
La Cina per esempio, che è, già oggi, il più grande cliente del petrolio di Teheran.
Ma anche le imprese europee e alcuni paesi asiatici potrebbero avere danni dal sanzionismo Usa.
Danni da sanzioni che, comunque, sarebbero limitati, proprio sulla base delle indicazioni dei documenti ufficiali nordamericani.
Essi infatti riguarderebbero in tutto meno di 200.000 barili/giorno, per poi arrivare ai suaccennati 500.000 barili al giorno dopo sei mesi dall’implementazione delle sanzioni di Trump.
Poi, lo abbiamo già visto, altri produttori potrebbero rapidamente riempire il vuoto iraniano, come la stessa Arabia Saudita, l’Iraq o addirittura la Russia, mentre gli Usa, con i loro idrocarburi da scisti bituminosi, stanno arrivando ad un livello di estrazione nel 2019 di ben 11,9 milioni di barili/giorno.
Uno standard, quello dello shale Usa, che vale solo se il prezzo al barile è sufficientemente alto.
Forse, lo diciamo quasi per paradosso, il solo aumento previsto dello shale statunitense basterebbe per riempire i vuoti lasciati dalle costrizioni sanzionistiche verso l’Iran.
Certo, gli europei, per evitare di sancire definitivamente la loro irrilevanza strategica e geoeconomica, potrebbero fare molte cose.
Che non fanno, essendo ancora schiavi di una mentalità da Seconda Guerra Mondiale che, peraltro, né i democratici né i repubblicani Usa mostrano di aver oggi mantenuto.
Peraltro, il loro interscambio con Teheran è quasi raddoppiato nel solo 2017.
Per esempio, gli europei potrebbero dare segnali certi e univoci alla Presidenza Trump ripetendo, come è talvolta accaduto, le blocking regulations interne al mercato UE per impedire che ogni soggetto o impresa europea sia obbligata ad accettare le sanzioni secondarie Usa che non devono dipendere mai, per la loro risoluzione legale, da tribunali non-UE.
Poi, si tratterebbe di migliorare le condizioni finanziarie delle imprese europee che operano anche nei confronti dell’Iran, proteggendo le linee di credito verso la repubblica sciita, con liquidità denominata sempre in euro e non in dollari Usd.
Poi, sarebbe molto utile la centralizzazione delle operazioni di tutela del business europeo in Iran nell’ambito dell’E3, il gruppo di Paesi UE che fa parte del P5+1 che ha già negoziato il deal iraniano del luglio 2015.
La questione geopolitica, qui, è soprattutto quella dei missili iraniani, che possono o meno essere armati con testate N.
E’ stato il tema strategico di Trump e, anche delle posizioni più recenti del premier israeliano.
Secondo le dichiarazioni del gen. Ali Jafari, comandante delle Guardie della Rivoluzione iraniane, la ricerca militare e scientifica di Teheran punta oggi unicamente sui missili con un raggio massimo di azione di 2000 chilometri.
Che possono comunque colpire, quindi, Riyadh, Israele e gran parte delle basi statunitensi nel Medio Oriente.
Sono comunque missili per la deterrenza convenzionale, come è ovvio.
Peraltro, anche l’Arabia Saudita ha un vasto arsenale missilistico.
Le Forze Strategiche di Riyadh operano da cinque diverse basi, ma soprattutto da quella di Al Watah, 200 chilometri a sud della capitale del Regno.
Poi c’è anche la base saudita di Asir, recentemente colpita da alcuni missili yemeniti, di probabile fattura iraniana, lanciati all’inizio dell’aprile scorso.
Le reti di vettori sauditi sono spesso mantenute da tecnici cinesi e, ricordiamo, data la grande partecipazione saudita al progetto nucleare pakistano, è molto probabile che il regno sunnita possa acquisire oggi testate N con grande facilità.
I missili sauditi, anch’essi, dovrebbero avere un raggio massimo di azione di 2650 chilometri.
Inoltre, l’Iran non ha ancora un’arma aerea capace di utilizzare appieno queste reti missilistiche e, comunque, il rapporto di forze militare tra i sauditi e l’Iran è ancora di 5 a 1.
Nel 2017, la repubblica di Teheran ha poi lanciato un missile balistico a medio raggio, esattamente il 29 gennaio di quell’anno, poi altri due vettori a breve raggio sempre nel marzo 2017 e, poi, abbiamo osservato il lancio operativo di otto missili diretti nelle basi del Daesh-Isis in Siria il 18 giugno, in risposta ad un attacco terroristico subito dall’Iran.
E ancora, Teheran ha lanciato un nuovo missile il 23 settembre, poi ancora un vettore per l’invio di satelliti tipo Simorgh il quale, però, non è progettato per rientrare nell’atmosfera.
Dal 2006 al 2012 l’Iran ha comunque impostato cinque test missilistici, tutti segnalati e già sanzionati dagli Usa.
Oggi, i vettori iraniani dovrebbero essere in totale circa un migliaio, sempre tutti a medio e corto raggio, con design russo o nordcoreano e assistenza tecnica soprattutto cinese.
La Risoluzione del CS dell’ONU n. 2231, quella che, ricordiamo, ha accettato il JCPOA, afferma inoltre che “sta all’Iran non testare alcun missile balistico”, mentre non ci sono proibizioni ufficiali onusiane sull’argomento.
Le tipologie di vettore iraniano sono oggi dieci, mentre i veicoli spaziali e i satelliti sono lanciati da vettori di due tipologie, dal Safir, a due stadi; e il già citato Simorgh, sempre a due stadi e anch’esso spinto da combustibile liquido.
I missili da crociera iraniani sono, oggi, di tre categorie: in primo luogo vi è il KH-55, che può portare materiale (anche) fissile fino a 3000 chilometri; e si tratta di un vettore ottenuto illegalmente dall’Ucraina nel 2001.
Poi abbiamo il Khalid Farzh, che ha un raggio di azione di 3000 chilometri e può portare un payload di quasi 1000 chili, infine vi è il Nasr-1, un missile per l’uso antinave e anticarro capace, così dicono le fonti iraniane, di eliminare obiettivi fino a 3000 tonnellate di peso.
Teheran ha, poi, esportato molti vettori missilistici convenzionali e numerosi pezzi di ricambio verso la Libia, tra il 2000 e il 2002.
Ma il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha già proibito all’Iran, dal 2007, di vendere o trasferire armi convenzionali e ha proibito, inoltre, i Paesi terzi dall’acquisire ogni e qualsiasi tipo di fornitura militare iraniana; a meno che ciò non sia consentito da una specifica dichiarazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
Teheran ha comunque inviato, dal 2012 al 2015, armi sia verso i Taliban in Afghanistan, che verso il regime di Assad in Siria e, molto probabilmente, anche a favore di altri Paesi del Medio Oriente.
L’Iran, pur avendo firmato la Convenzione sulle Armi Chimiche continua, con ogni probabilità, a produrre agenti per la guerra chimica e batteriologica.
Lo fanno anche gli altri primari attori geopolitici del Golfo e del Grande Medio Oriente.
Mai come nel panorama militare mediorientale vale il criterio evangelico della prima pietra.
Quindi, è bene non credere mai che il problema della proliferazione N e BC sia solo valido per l’Iran, ma c’è anche l’Arabia Saudita, poi l’Egitto che ha trattato armi per l’Iran e, soprattutto, per la Corea del Nord, per non parlare del nuovo trattato nucleare siglato, l’11 dicembre 2017, tra Egitto e Federazione Russa, per la costruzione di un reattore N a El-Dabaa, 140 ad ovest di Alessandria.
Per non parlare, infine, del reattore nucleare giordano, che è stato inaugurato il dicembre 2016 ed è stato costruito in collaborazione con l’università di Seoul.
E l’Arabia Saudita, pochi giorni fa, ha chiarito che, se l’Iran costruirà la sua bomba N, come dicono gli occidentali, allora essa metterà rapidamente mano al suo piano nucleare militare.
Tutto questo dovrà essere discusso alla prossima High Level Conference on nuclear disarmment dell’ONU, che si terrà entro la fine di quest’anno.
E, quindi, si tratta di sviluppare (è anche una vecchia proposta iraniana, evidentemente mirata contro Israele) una vera e seria Zona Denuclearizzata in tutto il Medio Oriente, con specifiche caratteristiche e strutture interne operanti nella IAEA.
Nessuno ha però vero interesse ad un gioco a somma zero di tipo nucleare nell’area petrolifera.
Ed è un grave errore. Una alleanza russa, cinese, israeliana e UE potrebbe far cambiare davvero le cose nel sistema N di tutto il Medio Oriente.
Ma si potrebbe anche pensare ad un accordo in ambito ONU che possa mutuamente garantire, al più basso livello convenzionale possibile, tutti i Paesi che compongono l’area.

Giancarlo Elia Valori