L’obbiettivo delle strutture espositive dev’essere allungare i tempi di osservazione delle opere

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In foto Palazzo Zevallos Stigliano

Raccontiamoci quanto siamo bravi. Quante opere d’arte riusciamo a far arrivare in Italia dall’estero. Tutto quanto riusciamo a mettere in mostra solleva ondate di consenso ed entusiasmo culturale, ed aggiunge medaglie e stellette sul petto degli artefici di queste migrazioni d’opere. Volendo, che sia. A Palazzo Zevallos a Napoli, sede delle Gallerie d’Italia, la volontà di esibire capolavori provenienti da tutto il mondo è palese in ogni mostra, e innegabilmente le opere offerte al pubblico sono sempre d’altissima qualità. Onore al merito.
E’ in atto, in questi giorni, una mostra che per il valore delle opere , come sempre, tiene alto lo stendardo della casa espositrice, ma purtroppo e forse più delle altre mostra una gestione che non rende merito a quanto esposto. Gli italiani, si sa, sono ottimi creatori di titoli, e anche in questo caso l’estro non si smentisce: David e Caravaggio. La crudeltà della natura, il profumo dell’ideale.” Un titolo intrigante che lascia la fantasia correre nell’aspettativa di una mostra coinvolgente dal punto di vista intellettuale, e emotivamente impegnativa su un tema come la crudeltà della natura.
A Palazzo Zevallos Caravaggio è di casa e, a prescindere il famosissimo Martirio di Sant’Orsola in esposizione fissa da sempre, tante altre opere di Merisi sono state esposte negli spazi dedicati. Nel titolo della mostra però c’è anche David. Jaques Louis David e non Jean, come una visitatrice saputellanzichenò continuava a declamare al cospetto di un opera che con l’acconciatore di teste aveva ben poco a che fare. Cicerone l’antico oratore avrebbe di che ululare. Altro che tempora e mores.
Lo scopo dell’esposizione è la relazione tra il nostro Caravaggio e Jaques Louis David attraverso l’esame di due opere: “la Morte di Marat” dell’artista francese e una copia della “Deposizione nel Sepolcro” capolavoro di Caravaggio. Titolo intrigante, attesa creata, il pubblico aspetta il confronto, l’emozione che unisce o contrappone le opere ed i loro autori. Rullo di tamburi: che la mostra abbia inizio. Prima tappa un video sulla rivoluzione francese e l’omicidio di Marat. La “Marsigiese”, le esecuzioni, l’omicidio di Marat. Il visitatore ora è preparato e comincia il suo percorso. Le visite variano dal minuto e 18 (tempi cronometrati) ai quattro minuti e 26 secondi fino ai noveminutiedieci impiegati da uno studente o giovane esperto che ha avuto la pazienza di leggere le didascalie e i cartelloni di spiegazione rincorrendo le opere citate da un punto all’altro dello spazio espositivo. Il Louvre ha osservato che le persone guardano la Gioconda per una media di 15 secondi, il che fa riflettere su quanto tempo passano davanti alle altre 35.000 opere della collezione. Qualcosa non funziona. Si potrebbe ambire a permanenze più lunghe. Sempre più di tendenza la promozione della figura del visitatore atleta nel fisico e di memoria esercitata: le opere spesso e volentieri, e ancora di più se messe in relazione, sono esposte in punti piuttosto lontani dello spazio espositivo costringendo il visitatore all’andirivieni tra le opere per sperimentare quanto descritto. Ha descritto, forse. I cartelloni esplicativi in questo caso, a meno di non essere esperti d’arte non accendono il faro sul confronto nella stessa maniera pulita e senza fronzoli usata per la composizione del titolo. Un solo cartellone reca in 10 righe la segnalazione dei termini del confronto: non solo una semplice ripetizione della posa dei due soggetti ma ”dello stesso modo di rendere i volumi e la luce…avendo in comune un realismo idealizzato che costituisce la cifra dei due artisti..” E tant’è. Se si è preparati e si capisce, bene. Oppure bene lo stesso. La famosa didattica da esercitarsi usando le emozioni del pubblico è sistematicamente ignorata. Molto emozionante l’istallazione a fine mostra: la vasca in cui Marat fu ucciso, vuota, senza il cadavere, ma con le striature di sangue e la lettera. Ha un significato, ma non è spiegato.
Non è immediato per il pubblico capire che David paragona il sacrificio del figlio di Dio a quello del suo Marat. Non c’è una luce speciale che illumini in contemporanea i due soggetti, la loro gestualità, la loro espressione. Non emerge, dall’esame dell’istallazione preparata, come David abbia voluto semplificare la scena privandola degli arredi, depurandola per non distrarre l’osservazione dalla figura principale. Il pulviscolo dorato è quasi la manifestazione sensibile della divinità come se quel personaggio fosse un dio per il popolo e la nazione. Ecco il legame creato con la figura del Cristo di Caravaggio. Esporre i due quadri lontani o anche uno affianco all’altro, senza sensibilizzare emotivamente il visitatore sul loro legame, incuriosirlo e farglielo trovare, non aiuta a raggiungere lo scopo della mostra. La distanza fisica che si è scelto di dare ai due quadri esposti, avrebbe potuto avere senso se, stando davanti a ognuna delle opere, si fosse potuto ascoltare una musica adatta a far salire il pathos trasmesso dalle singole immagini.