di Erika Basile
“È stata la mano di Dio” è il tempo ritrovato di Paolo Sorrentino. Una rivelazione che illumina la sua esperienza artistica, fornendone una chiave di lettura unitaria, attraverso il racconto della sua storia personale.
“La vita, ora che la mia famiglia si è disintegrata non mi piace più… Ne voglio un’altra, immaginaria, uguale a quella che tenevo prima. La realtà non mi piace più, la realtà è scadente: ecco perché voglio fare il cinema”. Uno dei dialoghi più fortemente emotivi del film è, senza dubbio, quello tra Fabietto (Filippo Scotti) e Antonio Capuano (Ciro Capano), regista napoletano da molti anni punto di riferimento artistico e amico di Sorrentino. È attraverso il cinema che avviene la riconciliazione con la perdita e il dolore. Un grande dolore può provocare lacerazioni profonde, ci si può perdere, “disunire”, come succede a Patrizia (una intensa Luisa Ranieri, che diventa proiezione dell’immaginario erotico di Fabietto). C’è un prima e un dopo, una cesura, è il momento in cui tutto cambia. Il tempo della leggerezza cede il passo a quello delle scelte. Ma in entrambi emergono chiaroscuri: l’armonia e la leggerezza tratteggiate nella prima parte sono squarciate dalla sofferenza della madre per il tradimento subìto e il rituale del gioco con le arance acquista, così, un significato ambivalente; nella seconda, dalle pieghe crudeli del tormento per l’abbandono, ma anche per l’impossibilità di elaborarlo attraverso un ultimo saluto, (“Non me li hanno fatti vedere”, urla Fabietto), filtrano sprazzi di bellezza. La sofferenza genera il conflitto, che gli trasmette la forza per rinascere, aprendosi allo stupore e all’immaginazione. Fabietto diventa Fabio e comincia a sentire davvero la musica da un walkman che fino a quel momento sembrava non emettere suoni. Il tempo ritrovato di Sorrentino/Fabietto è quello della sua adolescenza, di un ragazzo solitario e introverso che deve affrontare una improvvisa e profonda sofferenza, è il suo tempo “interiore”, il tempo della memoria e della perdita dell’innocenza. La narrazione non segue un percorso lineare ma procede per “situazioni”, come se Sorrentino, assaggiando le sue madeleines, ci trasferisse emozioni e sensazioni provate sotto forma di immagini, di fotogrammi, per ricomporre il suo mondo di ragazzo. “La scena onirica del munaciello – rivela – è una sorta di congedo dal mio cinema prima di È stata la mano di Dio, quando un certo tipo di copioni e la mia voglia di divertirmi mi hanno fatto usare la camera per movimenti anche molto complessi. Stavolta ho riscoperto la semplicità che sta nel decidere l’inquadratura e poi lasciare che le cose accadano dentro di essa”. La forza poetica del film risiede, infatti, nella semplicità e intensità degli sguardi, messe in rilievo dai numerosi primi piani, dalla naturalezza dei gesti e dei movimenti, dalle ambientazioni familiari, che ci ricordano quelle di Massimo Troisi, con il suo racconto della Napoli degli anni ‘80, la passione per la sua squadra di calcio e l’ammirazione per Maradona. La poesia si articola nella realtà degli scherzi organizzati dalla mamma, del fischio d’intesa tra i genitori che tutto perdona, nei silenzi di Fabietto e di Patrizia, nella sacralità di Maradona che diviene metafora: “È stata la mano di Dio” a salvare Fabietto. Ogni attore ha il suo spazio e la possibilità di lasciare la sua impronta nel film. Sembra che non ci siano comparse, perché di ognuno si fissa un ricordo. Filippo Scotti, Toni Servillo, Teresa Saponangelo, Luisa Ranieri, Renato Carpentieri, Massimiliano Gallo, Ciro Capano e tanti altri: tutti hanno una nitida caratterizzazione. Ritroviamo un repertorio di riferimenti intimi e citazioni: “C’era una volta in America”, con l’auto d’epoca che nella scena iniziale percorre il lungomare e la videocassetta su cui più volte si sofferma la telecamera del regista; c’è Fellini, in città a fare provini, c’è Enzo De Caro, la cui presenza sembra assumere anche il senso di un tributo a Massimo Troisi; c’è Maradona, che in “Youth” (interpretato da Roly Serrano) avevamo visto appesantito, ma ancora capace di palleggiare con una pallina da tennis, e ora appare nel suo periodo più felice. Napoli viene narrata come uno stato dell’anima: è una città chiassosa, irriverente, misteriosa e accogliente, un luogo della memoria, da cui “nessuno se ne va mai veramente”. Una città incompiuta, dove si ha la sensazione che tutto debba accadere altrove. Le tavolate all’aperto, le giornate al mare, le domeniche passate a guardare le partite di calcio e a esultare fuori ai balconi: tutto viene condiviso come in una grande comunità, con parenti e amici, alcuni dei quali assumono anche tratti grotteschi e caricaturali. E Fabietto guarda, osserva ogni cosa, prima da spettatore e poi entrando egli stesso in quella realtà, a piccoli passi, fino a quando non avrà più timore di immergersi nella vita. Alla fine, sulle note struggenti di Pino Daniele, a noi resta un bagaglio di emozioni da elaborare e viene da dire, come a Maradona nel 2015, “grazie assaje Maestro!”.