Minore malato di videogiochi, il Tribunale dispone l’affido ad una comunità

A 15 anni affidato ad una comunità di tutela perché ossessionato dai videogiochi. La vicenda riguarda una famiglia del cremonese già da tempo seguita dai servizi sociali. Un contesto difficile: genitori separati, mamma con problemi giudiziari, una sorella già affidata ad una comunità. La via crucis per il quindicenne, con difficoltà nell’apprendimento, è iniziata diversi mesi fa quando venne riconosciuto “schiavo” della playstation, vittima di una dipendenza dai videogiochi da cui non è riuscito a liberarsi. Da qui la decisione dei giudici di affidarlo ad una comunità. Nelle scorse ore il ragazzino ha scritto un’accorata lettera ai giudici chiedendo di restare con la mamma, “le prometto che faccio il bravo” – si legge- lettera a cui i giudici bresciani non hanno però dato seguito e ascolto. La vicenda era arrivata all’attenzione della magistratura bresciana due anni fa, quando la madre dell’adolescente, si rivolse ai servizi sociali per ricevere un aiuto nella gestione delle paranoie e delle ossessioni del figlio, eccessivamente legato ai videogiochi e alle console. Seguito in un primo momento dal reparto di neuropsichiatria infantile, il ragazzino alla fine dell’anno scolastico ha iniziato a non frequentare più la scuola sempre più risucchiato dai colori e dai giochi della playstation. Sembrerebbe, dalle relazioni degli assistenti sociali, che la madre abbia dimostrato di non sapersi prendere cura del figlio, da qui l’intenzione di affidarlo ad una comunità, dove fino ad un attimo primo è stato trovato in casa intento a giocare con la consolle sulle gambe. Ora sarà sottoposto ad un percorso riabilitativo finalizzato a dargli equilibrio. In un mondo iperconnesso, bambini e adolescenti trascorrono la maggior parte della giornata tra smartphone, computer e videogiochi. Rischiando una dipendenza da tecnologia che può sconfinare in diversi disturbi: dall’isolamento all’aggressività, fino all’ansia e alla depressione. Con conseguenze negative su attenzione, controllo degli impulsi, tolleranza alla frustrazione, dimenticando l’importanza del gioco, della socialità e della compagnia. Se da un lato una ricerca della Readboud University in Olanda documenta i benefici sperimentati da bambini e adolescenti utilizzatori di giochi interattivi sul piano cognitivo, emotivo e mentale. Ma la preoccupazione si concentra sulle possibilità di dipendenza e sull’esposizione alla violenza. Non mancano poi correlazioni con disturbi del sonno, isolamento, aggressività, obesità e ansia. E conseguenze negative su attenzione, controllo degli impulsi, tolleranza alla frustrazione. Ciò di cui si parla meno forse è che giocare su uno schermo: cellulare, tablet o consolle è da considerarsi fattore di stress psicologico con effetti fisiologici di una certa entità come variazioni della frequenza cardiaca, della pressione, dei livelli di noradrenalina e cortisolo: ormone dello stress, alterazioni dello zucchero nel sangue, ritardo nella digestione. È correlato anche a una maggiore assunzione di cibo negli adolescenti, a una diminuzione della precisione, alla sindrome metabolica: ipertensione, obesità negli adolescenti indipendentemente da inattività fisica. Le raccomandazioni da parte delle organizzazioni scientifiche di pediatri sono di limitare la quantità di tempo totale dell’intrattenimento con gli schermi a meno di due ore al giorno, evitare le esposizioni ai bambini sotto ai due anni, e controllarne i contenuti, spesso inadatti all’età dei giocatori. Ma comunemente il tempo dello schermo per i bambini e ragazzi è ben altro. Tv, smartphone, computer, tablet, social media e videogiochi hanno invaso la loro giornata. Più di qualunque altra attività. Forse è proprio questo l’aspetto sul quale concentrarsi. Sullo spazio, il coinvolgimento, la pervasività di questa esperienza nella loro vita. E nella nostra, perché siamo noi adulti i primi a dare esempio. Non sono i videogiochi in sé ad essere buoni o cattivi. Però quando i bambini trovano noiose le attività senza schermo è un segnale di allarme: probabilmente si sono abituati a un livello innaturale di stimolazione. Così come quando preferiscono il video in solitaria alla compagnia di coetanei. Il gioco o qualunque altra attività sullo schermo è un tempo sottratto a esperienze reali, a interazioni sociali, al gioco libero e spontaneo, alla possibilità di muoversi, esprimersi secondo modalità non programmate. Numerosi studi condotti negli Usa dimostrano che gli adolescenti che nell’infanzia non hanno avuto modo di sperimentare liberamente giochi di gruppo e di movimento con i coetanei sono più ansiosi, depressi e meno autonomi. Offrire esperienze ai nostri figli, allargarle ma non approfondirle, sta diventando la norma nel nostro vivere iperconnesso. Nel mondo cibernetico di oggi, i bambini sono esposti a messaggi che insegnano apatia, non empatia. La connessione intima, autentica sta diventando sempre più difficile. Instaurano rapporti numerosi, estesi, fatti di rapidi e brevi scambi a scapito di profondità e intensità. Sono sedotti da una miriade di semplificazioni, gratificazioni immediate con click dispensatori di dopamina, ma rischiano di privarsi della possibilità di costruire legami attraverso i quali imparare a essere pienamente presenti all’altro, acquisire fiducia, comprensione, profondo senso di connessione. A impegnarsi. Giocare guardandosi negli occhi. Per questo il tempo dei videogiochi per i bambini andrebbe confinato tra esperienze creative reali. Gli esseri umani sono programmati per la socialità e la compagnia, l’affetto e l’attaccamento. Come adulti ed educatori, dobbiamo lavorare per mostrare ai nostri figli il valore di queste risorse.