“Mò t’‘o ccont… Diario dalla prigionia di Gennaro Brasiletti”. Fare memoria di ciò che è stato

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di Fiorella Franchini

“E tu, tu la chiami guerra. E non sai che cos’è” ha cantato Fabrizio De André; la vera guerra non è solo l’odio che getta gli uni contro gli altri, ma anche la distanza che separa le persone che si amano. “Mò t’‘o ccont… Diario dalla prigionia” – Terra del Sole Edizioni – presentato alla Mondadori Bookstore da Guido d’Agostino, Presidente dell’Istituto Campano per la Storia della Resistenza, Alfonso Bottone, giornalista, e il critico letterario Raffaele Messina, con le letture di Maria Gabriella Tinè, racconta l’esperienza bellica nei Balcani di Gennaro Brasiletti, muratore di Atrani, dal 1940 al 1943. Quando nel ’45 ritornò a Vettica Minore, villaggio rurale di Amalfi, l’uomo, sposato con quattro figli, ricopiò i pezzi di carta scritti a matita, insieme alle schede, buttate via, di ebrei di passaggio nel suo campo, a Pozaverac, durante il loro trasferimento. Il diario è il ricordo di tutto ciò che gli è accaduto, dal giorno in cui è stato richiamato alle armi fino al suo ritorno a casa. Una sorta di lunga lettera alla moglie e ai figli lontani, per raccontare le sue giornate, le sue ansie, le sue speranze, e sentirseli così più vicini. La narrazione autobiografica rappresenta un bisogno essenziale dell’essere umano, cui si fa ricorso per i motivi più vari. Tante sono le motivazioni che spingono un soldato a scrivere della propria esperienza al fronte; la memorialistica di guerra è il mezzo preferito dai più per ricordare gli eventi e i compagni perduti, affrontare le proprie azioni e i sensi di colpa, o anche solo comprendere quanto avvenuto. Gennaro Brasiletti con l’essenzialità dell’uomo comune, con la scrittura semplice e senza enfasi, s’interroga, cerca di comprendere una realtà che gli si svela giorno per giorno, dall’inefficienza organizzativa, dalla mancanza di divise e armi riscontrate a Napoli, la spettacolarità, la retorica e gli inganni scoperti a Roma. Scrive, soprattutto, per non dimenticare nulla, né le sofferenze fisiche e psichiche, gli incidenti sul lavoro, le malattie; né le sensazioni, le emozioni, le cose belle che rincuoravano il suo spirito. Invece di lasciare andare, ricorda e lo fanno anche i suoi figli e i suoi nipoti ribadendo quanto la memorialistica, nonostante i suoi limiti storiografici, resti un’esperienza fondamentale per l’individuo e per la comunità. L’io e l’altro, il nemico, la Storia e la «storia minuta», il pubblico e il privato, il passato e il presente, la memoria collettiva e la memoria privata, la scrittura rafforza il valore civico del ricordo e della testimonianza. Piccola storia che documenta quella parte poco nota della Seconda Guerra Mondiale e tanta umanità. Nicolai Lilin affermava che in guerra gli facevano più impressione i vivi, che i morti perché i primi “avevano questo terribile vuoto negli occhi: erano esseri umani che avevano guardato oltre la pazzia”, la follia della guerra che non si è mai placata, se il Conflict Barometer continua a registrare un numero altissimo di conflitti nel mondo che, solo apparentemente non ci riguardano, perché la globalizzazione ci riporta come un boomerang conseguenze economiche e morali. “Fare memoria di ciò che è stato”, ammoniva Primo Levi, non è solo archeologia bellica, e non è solo il giusto tributo di memoria per chi ha donato la vita, per chi l’ha persa e per chi come Gennaro Brasiletti è tornato da un vissuto devastante, ma anche un invito oggi, a lavorare ogni giorno per la pace, disinnescare la violenza.