La situazione in Libia, oggi, è tutt’altro che semplice.
Ad aprile 2019, le forze di Khalifa Haftar, che ha ricevuto dal nuovo inviato russo Lev Dengov il gentile, recentissimo, ordine di non arrivare fino a Tripoli, che è comunque già circondata, da Sud, dalle forze del feldmaresciallo di Bengazi.
La presa di Tripoli non sarebbe l’inizio dell’unificazione tra i due tronconi della vecchia Libia unitaria di Gheddafi ( e di Italo Balbo, che ritardò il più possibile l’applicazione delle leggi razziali nel governatorato di Tripoli).
Il governo di accordo Nazionale di Tripoli, diretto da Al Serraj, è ancora l’unico riconosciuto dall’ONU, ed ha già messo in bilancio 2 miliardi di dinari, ovvero 1,43 miliardi di Usd, per finanziare la guerra contro Bengazi, per il rinnovato controllo della capitale da parte delle forze del GNA.
Fondi da finanziare senza prestiti all’estero, ha precisato Tripoli.
I finanziamenti al governo di Tripoli derivano soprattutto dalla vendita del petrolio, a tutt’oggi 928.000 barili/giorno, con 1,87 miliardi di usd di entrate nette, secondo gli ultimi dati dell’aprile 2019.
Inoltre, Al Serraj acquisisce altri fondi dai prestiti a zero interessi delle banche locali a quella centrale; e infine da una tassa del 183% sulle transazioni con l’estero condotte ai tassi ufficiali, 1,4 dinari sul dollaro Usa.
La raccolta centralizzata delle tasse, però, diminuisce ogni giorno di più, anche nel settore petrolifero, di cui i dirigenti dell’organo nazionale libico, la NOC, si lamentano costantemente dei furti e dei numerosissimi illeciti.
Se non vi è la paura, l’“universale e legittima condizione di eguaglianza tra gli uomini”, come diceva Hobbes, allora lo scontro tra individui, ci dice ancora Hobbes, sfocia nella aggressione reciproca e nel bellum omnium contra omnes.
Ecco la necessità del patto tra i “soggetti”, subjects appunto, che elimina la guerra di tutti contro tutti.
Ecco, in Libia dobbiamo applicare Hobbes.
E anche Machiavelli, quando ci ricorda che “governare è far credere” e che, in questo caso è utilissimo, “la guerra non si lieva, ma si differisce a vantaggio di altri”. Trovare allora, e presto, il Capo libico che, diversamente da Gheddafi, che scoprì il Servizio Segreto italiano, in una riunione ad Abano Terme, riunifichi il Paese e lo faccia, sempre con le parole di Machiavelli, “usare la bestia e l’uomo”.
E’ questa la legge di ogni “stato fallito”, che lo è per l’implosione della sua autorità centrale, che genera una crisi di fiducia tra tutti i partecipanti del fantasioso, eppure reale, accordo per fare cessare la guerra di tutti contro tutti. Che è proprio quello che sta accadendo in Libia.
E poi fallito, lo stato libico unitario, non per la sua estensione territoriale, ma per la sua mancanza, o illegittimità per i sudditi, del ricorso all’uso della forza. Che, nel caso di Gheddafi, fu materialmente impedita dagli occidentali, che se volevano disfare, dopo averlo spremuto come un limone del lungomare di Tripoli.
Haftar comunque non può, anche se qualche traffico è già avvenuto, vendere petrolio estratto dal territorio sotto il suo controllo, lo affermano chiaramente le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU.
Che saranno estese, come ha deciso recentemente il Consiglio di Sicurezza stesso, ma con l’astensione di Russia e Cina, fino al 2020.
Haftar non è poi riuscito a conquistare Tripoli, ma ha invece assoldato, per ben 120.000 usd, una società di lobbying politico statunitense, la Linden Government Solutions.
Che ha già parlato con Trump, attentissimo a certe consulenze.
Aveva già stilato, Haftar, un contratto di consulenza con sede a Montreal, la Dickens& Madison, diretta da Ari Ben Menashe, un ex-dirigente dell’intelligence militare israeliana.
Quindi, se Haftar non può muovere i soldi del suo petrolio da solo, deve operare con un conto da tempo acceso presso la Banca Centrale Libica, ma sia la NOC che la banca di emissione sono, ovviamente, legate al governo di Al Serraj.
I tentativi di Haftar di vendersi il suo petrolio da solo sono stati, in parte, bloccati direttamente dagli Usa.
La conquista, sia pure temporanea, delle tribù del Fezzan da parte del generale di Tobruk e la sua rapida avanzata verso le aree del governo di Al Serraj sono state finanziate soprattutto dai dinari stampati in Russia.
La Banca Centrale di Al Bayda, l’entità di riferimento monetaria di Haftar, si è separata, come è noto, da quella di Tripoli nel 2014.
Le riserve, afferma il governatore Al-Hibri, sono oggi di 800 milioni di dinari, 60 milioni di euro e 80 milioni di dollari Usa.
I dinari stampati in Russia, quelli con il profilo di Muammar el Gheddafi, pur con il consenso della Camera dei Rappresentanti, sono stati, in tre anni, 9,7 miliardi.
4 miliardi nel 2016, 4 nel 2017 e 1,7 nel 2018.
E, per Haftar, si tratta di denaro utilizzato soprattutto per comprare le tribù meridionali e i mercenari che utilizza, da varie parti dell’Africa e del mondo arabo, per combattere il GNA.
Ma, dalla parte di Al Serraj, le risorse sono egualmente drenate dalla necessità di pagare i propri mercenari, che agiscono sia come forze di sicurezza interna che come gruppi di militari contro Haftar.
L’Est libico di Al Bayda ha venduto i suoi titoli di Stato per un totale di 35 miliardi di dinari, ma fuori dai canali finanziari ufficiali, visto che la Banca di Tripoli non finanzia niente che non sia, all’Est, il monte salari di quelli che erano dipendenti pubblici prima del 2014.
Il governo di Tripoli, invece, ha una spesa annuale di 48,6 miliardi di dinari, soprattutto per i salari del comparto pubblico e i sussidi all’acquisto di benzina.
Il rapporto debito-PIL del governo del GNA a Tripoli è del 143%, con il 70% della spesa pubblica che va, appunto, in stipendi e salari.
Sempre sulle due banche libiche, è bene ricordare che la costituzione della Banca Centrale di al Bayda nel 2014 ha causato l’interruzione del sistema automatico di clearing con quella di Tripoli, il Real Time Gross Settlement, e nel prosieguo del tempo, a parte alcuni passaggi di denaro da Tripoli, quelli dell’Est si sono mantenuti stampando semplicemente banconote, come nella Repubblica di Weimar, in valore ben 7 miliardi di Usd, 10 miliardi di dinari.
Serve, al mercato petrolifero globale, un produttore come la Libia in crisi inflattiva incontrollabile? Cosa succederebbe all’OPEC e agli altri produttori?
Ecco quindi la necessità di un piano Dawes, come quello per Weimar, che ci salvi dal contagio libico. Come? Mettendo in conto il valore formale dei pozzi? Calcolando il valore, sempre nominale, delle concessioni attuali o future?
Certo, non potremmo fare un bilancio di previsione calcolando il valore delle locomotive, come fece Dawes per la Germania di Weimar.
Il debito allocato in titoli dal governo dell’Est libico, emesso dal 2015 al 2018, vale oggi 35 miliardi di dinari, ovvero 25 miliardi di Usd, e un 50% di esso va, ancora, per il finanziamento delle forze di Haftar.
Il deficit di entrate, per il governo di Tripoli, riguardante soprattutto la caduta del prezzo e della estrazione dei petroli, è arrivato a circa 15 miliardi di usd l’anno, a partire dal 2017.
Quindi, tra spese e mancate entrate, il deficit di Tripoli dovrebbe essere oggi di 62 miliardi di dinari, ovvero 44 miliardi di usd.
L’est libico, comunque, firma assegni da conto corrente standard ai suoi dipendenti, che sono cambiati dalle banche private dove i dipendenti hanno i loro conti.
Quindi, si è creato un sistema parallelo a quello RTGS che vale per i rapporti ufficiali con Tripoli e un altro, che mette in rapporto il governo di Bengazi-Tobruk con l’insieme delle banche private libiche, anche di quelle all’Ovest.
Quindi, le banche hanno tenuto il loro primo sistema di garanzie con la Banca Centrale di Tripoli, e accumulato riserve e crediti per sostenere le operazioni ordinate dalla banca di Al Bayda.
Il problema è che le istituzioni finanziarie internazionali riconoscono il debito di Tripoli, ma non quello di Al-Bayda.
Le banche commerciali hanno oggi 21 miliardi di dinari di crediti con le banche dell’Est di Bengazi, 15 miliardi di usd, A ciò segue, come è ovvio, la caduta dei depositi.
A metà marzo 2019, i depositi bancari nella Centrale di Tripoli stavano tra l’uno e i due miliardi di dinari, ma all’Est si arriva a ai sei miliardi.
Una guerra commerciale mascherata da guerra bancaria.
E questa è certamente una delle ragioni per l’accelerazione dei tempi bellici in tutta la Libia.
Nessuna difesa e nessuna avanzata si possono mantenere con queste economie interne.
Ma, se Haftar o Al Serraj cadranno, il finanziamento delle due guerre avverrà completamente “in nero”, come avviene ancor oggi il sostentamento del jihad.
Sul piano della pubblica opinione, gli ultimi sondaggi ci dicono che i libici vogliono soprattutto, per il 37%, la sicurezza.
Chi garantisce la cessazione del sang dans la rue vince il cuore di tutti i libici. Come accadrebbe ovunque.
Il “perdono” e la “giustizia”, che non sono certo dei sinonimi, valgono, per il secondo posto nei sogni dei libici, il 25%, segno che, comunque, la tensione settaria e la guerra tra fazioni hanno raggiunto il loro limite psicologico, che è anche un limite al reclutamento e alla faziosità politica di ogni giorno.
La giustizia “ristorativa”, in un contesto come quello libico, è favorita rispetto alla “giustizia criminale o punitiva”.
In altri termini, la gente libica, ad Est e a Ovest, vuole il ritorno di ciò che è stato asportato, la reintegrazione della proprietà, magari anche incompleta, in cambio della continuazione imperterrita e inutile dello scontro e del “soldo del soldato”; o del sogno della futura reintegrazione, alla fine dei tempi dello scontro.
Termine metafisico, che usiamo non a caso.
Per il 40% dei libici interrogati dai vari centri di ricerca occidentali, e facciamo una media ponderata dei dati, occorrerebbe che tutti i belligeranti possano essere perdonati, perfino coloro che hanno commesso crimini. La gente, evidentemente, non ne può più.
La Libia, il popolo libico, ha voglia solo di vivere in pace, finalmente.
Per il 50% dei libici interrogati dai centri di ricerca occidentali, la diaspora libica dovrebbe avere un ruolo nel processo di pace, ma per il 43% no.
Ovvero, non vogliono, per il 43%, che operino ancora in Libia tutti coloro che hanno fatto i soldi in modo “grigio” e che sono scappati in tempo.
Ma c’è ancora una vasta diaspora libica di intellettuali, tecnici, professionisti, imprenditori, commercianti, che sarà inevitabilmente richiamata ai propri doveri, quando ci sarà un progetto di pace credibile.
La pacificazione deve essere diretta dai libici, in un nuovo governo nazionale, e con il sostegno programmato delle potenze interessate alla stabilizzazione (e all’unificazione) del quadrante libico.
Il frazionamento della Libia è solo uno stupido ricordo del periferico vilayet, distretto, dell’Impero Ottomano.
Certo, come consigliano alcune agenzie di sostegno alle popolazioni in guerra o in fase di grave crisi politica, occorrerà anche creare iniziative, possibilmente non artificiose, di nuovo nation-buinding tra i vari gruppi libici, per eliminare le animosità, le tensioni, gli odi che si sono naturalmente accumulati.
Ma “odiare stanca”, come diceva Jean Rostand.
E, inoltre, ci dovrà essere un meccanismo di riparazione, organizzato da un Trust a cui parteciperanno banche europee e mediorientali nominate dai loro governi, tra le fazioni in lotta.
Pagare è regnare, come sosteneva Madame De Girardin.
Far cessare subito quindi, o in tempi razionali e brevi, le infinite discussioni sui danni al negozio, o perfino sul figlio assassinato, o magari sui danni illeciti ricevuti dalla propria banca.
Rimettere a loro i loro debiti sarà essenziale per una pace reale, senza la bile e il risentimento di chi è, o si crede, danneggiato.
Per questo, lo ripetiamo, occorrerebbe un Trust che si finanzia con una quota sul prezzo dei petroli venduti dalla Libia, più un contributo amichevole e grazioso, e naturalmente anonimo, della diaspora libica.
Naturalmente, occorrerà includere, in un processo di ricostruzione nazionale molto simile ai vecchi “comitati” di Muammar el Gheddafi, le donne e i giovani.
La tradizione del gheddafismo è ancora forte, le donne non sono escluse, nemmeno in aree a fortissima presenza di islamismo radicale, dai processi sociali e dalla partecipazione civica.
Nessuno dei due governi, peraltro, ha la piena fiducia dei libici, che bocciano il GNA di Tripoli per il 63% e il governo di Tobruk per il 71%.
Le unità locali, parte del conflitto a tutti gli effetti, sono percepiti dai libici interrogati dalle organizzazioni internazionali come assolutamente inaffidabili, solo il 28% dei libici le ritiene efficaci.
Quindi, occorrerà ristabilire le unità locali, certo, in accordo con il (solo) governo centrale libico, ma con un diverso disegno territoriale, che eviti la localizzazione tribale o settaria e che permetta il controllo militare e sociale delle amministrazioni.
La Libia è grande, e la voglia di giocare ancora al gioco della secessione localista può essere forte, soprattutto in presenza di forti redditi “naturali”: il petrolio, i minerali, perfino l’acqua.
Creare un parlamento, ma non a imitazione dei parlamenti nazionali europei, piuttosto una grande assemblea nominata dalle tribù, con i modi a loro propri (inutile democratizzare il Fezzan, è ovvio) e un governo nazionale che risponde sia alla assemblea delle tribù, ineliminabili, e inoltre a una assemblea elettiva secondo i criteri della rappresentanza tradizionale occidentale.
Il governo dovrà avere il voto dei due organi.
Per risolvere la lotta dei Paesi sunniti dell’OPEC per il petrolio libico, che è subentrata immediatamente alla guerra cretina per portare la “democrazia” in Libia, oltre che per assassinare il “tiranno”, che era sostenuto da tutti i Paesi UE, occorrerà creare delle aree di influenza, razionalmente disegnate.
Inutile mandar via la Turchia della Fratellanza Musulmana e il Qatar dall’area del GNA di Al Serraj.
Non ce la faremo mai. L’Occidente è un vecchio artritico.
Si tratterà di regolare, tramite un trattato internazionale, il rapporto della Turchia con la Libia, così come dell’Egitto, che ha interessi diretti sulla Cirenaica, o dell’Arabia Saudita o, perfino, della Francia, che è ormai inutile, tra le relazioni diplomatiche interrotte con Serraj e la richiesta, amichevole, ad Haftar, di cessare l’attacco dell’Esercito Nazionale Libico a Tripoli. La classica fine dei troppo furbi.
E occorrerà, per giunta, che partecipino alla ricostruzione libica, che sarà certo lunga, gli Usa, gli Stati europei, ovvero tutti quelli della UE, la Gran Bretagna e, in via laterale, anche Israele.
Il quale potrebbe garantire la sicurezza remota e l’integrazione futura del mercato petrolifero libico con l’asse Libano-Cipro-Turchia, che sarà tra i più importanti del futuro.
Un trust bancario, una agenzia ad hoc, garantirà la vendita, con i limiti prefissati e alcune garanzie, dei titoli del debito libico unitario, assorbendo una parte di quelli ancora in circolazione e creando, possibilmente, un desk internazionale per le vendite.
Le Forze Armate saranno ricostruite con i tipici criteri nazionali, ma con una catena di comando in cui sarà ben chiaro il potere clausewitziano del capo politico rispetto alla gerarchia militare, inoltre con un finanziamento ben chiaro e innovativo: la lotta, fin dal Fezzan e anche oltre, alla tratta illegale dei migranti. Lo pagheranno tutti i Paesi europei, contentissimi.
Noi abbiamo ancora bisogno di un grande Custode in Nord-Africa, ma abbiamo anche bisogno di mostrare che la follia, di matrice occidentale, delle “primavere arabe” è cessata, stabilizzando quindi gli altri governi, e ricominciando a investire, con le garanzie di un governo locale stabile, in tutto il Nord-Africa.
Altrimenti, presto o tardi, il mare delle migrazioni ci sommergerà, destabilizzando tutta l’economia UE e il nostro welfare state.