“Oltre il matrimonio” Le Unioni Civili e le Convivenze di fatto

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Gli artt. 2 e 3 della Costituzione garantiscono i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali, prescrivendo in capo alla Repubblica l’obbligo di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano la libertà e l’uguaglianza ed impediscono il pieno sviluppo della persona umana. Questo il solco dei principi fondamentali, confermati e garantiti anche da norme sovranazionali, in cui si è mossa per molti anni la giurisprudenza di merito e costituzionale per approdare in più occasioni a riconoscere a tutti i cittadini il “diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri” (Corte Cost. sentenza 138/2010) senza, tra le altre, distinzione di sesso. Pertanto, dopo un non breve e contestato percorso, il legislatore, con la legge n. 76 del 20 maggio 2016, entrata in vigore lo scorso 5 giugno, ha istituito l’unione civile tra persone dello stesso sesso; legge oggetto da subito di forti critiche, sfociate, pochi giorni dopo la sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, nell’immediata proposizione di un quesito referendario per la relativa abrogazione. Vediamo in sintesi cosa ha previsto il legislatore, che da più parti è stato additato per aver perso l’occasione di fornire una regolamentazione esaustiva. La legge, costituita da un unico articolo di 69 commi, regolamenta le unioni civili dal comma 1 al comma 35, contenendo altresì la delega al governo per l’emanazione di uno o più decreti legislativi per la disciplina di alcuni aspetti ulteriori, tra i quali il necessario raccordo con le norme di diritto internazionale privato per la regolamentazione delle coppie omosessuali che abbiano già legittimamente contratto matrimonio o unione civile in base alla normativa di uno stato estero. Da qualche giorno quindi è possibile per soggetti maggiorenni dello stesso sesso costituire un’unione civile, per mezzo di dichiarazione da rendere innanzi all’Ufficiale dello Stato Civile alla presenza di due testimoni. Come per il matrimonio sono elencati gli impedimenti dirimenti, in presenza dei quali l’unione civile è affetta da nullità, tra questi si annoverano la sussistenza di un vincolo matrimoniale o unione civile, l’esistenza tra le parti di rapporti di parentela, affinità, adozione, affiliazione. Come per i coniugi, al momento della dichiarazione le parti possono scegliere il regime patrimoniale e, in assenza di espressa convenzione, si presume sussistente il regime di comunione dei beni. Con l’unione civile sorgono in capo ai partner diritti e doveri simili a quelli discendenti dal matrimonio; il comma 11 dell’art. 1 della legge in parola, difatti, richiama la formulazione dell’art. 143 c.c., prevedendo per le parti l’obbligo reciproco di assistenza morale e alla coabitazione, il dovere a contribuire ai bisogni comuni in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale e casalingo, mentre resta espressamente omesso dal predetto richiamo normativo la prescrizione inerente l’obbligo di fedeltà. In caso di morte di uno dei partner la legge riconosce al partner superstite il diritto a percepire l’indennità per la cessazione del rapporto di lavoro (art. 2118 c.c.), il trattamento di fine rapporto, nonché i diritti successori. Sono altresì applicabili le norme del codice civile che regolamentano le cause di indegnità a succedere, la collazione ed i patti di famiglia. Le parti possono far cessare gli effetti dell’unione civile, senza accedere preventivamente alla procedura di separazione prevista per i coniugi, aderendo alla negoziazione assistita o ricorrendo alla procedura di divorzio. Qualora la volontà allo scioglimento dell’unione sia manifestata unilateralmente con dichiarazione all’Ufficiale dello Stato Civile, la domanda di scioglimento potrà essere proposta solo trascorsi tre mesi dalla notificazione della predetta dichiarazione all’altra parte. Il legislatore nulla ha previsto in ordine all’eventuale filiazione o alla presenza di figli già nati, lasciando un vuoto normativo che andrà necessariamente colmato. Con la medesima legge è stata altresì introdotta nel nostro ordinamento la disciplina delle “convivenze di fatto”. A norma del comma 36 “si intendono per conviventi di fatto due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile”. Ai fini dell’accertamento della stabile convivenza la norma richiama la necessità di effettuare la dichiarazione anagrafica. I vantaggi derivanti dalla predetta regolamentazione sono prevalentemente il riconoscimento dei diritti di visita, assistenza ed accesso ad informazioni personali in ambito sanitario, l’applicazione ai conviventi dell’ordinamento penitenziario per la tutela del mantenimento delle relazioni familiari, l’equiparazione del diritto al risarcimento del danno da morte riconosciuto al coniuge superstite a quello del convivente superstite, nonché la partecipazione agli utili dell’impresa familiare in misura commisurata al lavoro prestato. In caso di cessazione della convivenza di fatto, il convivente che dimostri di versare in stato di bisogno e di non essere in grado di poter provvedere al proprio sostentamento, può ottenere il riconoscimento in sede giudiziaria del diritto agli alimenti per un periodo fissato in rapporto proporzionale alla durata della convivenza. L’evento morte del convivente viene considerato dal legislatore limitatamente al diritto di abitazione riconosciuto al convivente superstite; pertanto – salva l’applicazione della disciplina codicistica in presenza di figli nati in costanza di convivenza tra soggetti eterosessuali – nel caso di decesso del convivente proprietario dell’abitazione adibita a residenza comune, il superstite potrà continuare ad abitare l’immobile per un biennio, o per un periodo pari a quello della convivenza protrattasi oltre due anni, ma con un limite massimo di cinque anni. Qualora l’abitazione sia locata, è prevista la facoltà per il superstite di subentrare nel contratto di locazione. Per la regolamentazione dei rapporti patrimoniali i conviventi potranno stipulare apposito contratto di convivenza, da redigersi con atto pubblico o scrittura privata autenticata, con iscrizione nei registri anagrafici del comune di residenza ai fini della opponibilità ai terzi. Il predetto contratto non può essere sottoposto a termine o a condizione, si risolve per accordo delle parti, per recesso unilaterale, in conseguenza di contrazione di matrimonio o costituzione di unione civile tra le parti o tra un convivente ed un’altra persona, per morte di uno dei contraenti. In caso di recesso unilaterale la parte che recede deve formalizzare la sua volontà in forma scritta, sempre con atto pubblico o scrittura privata autenticata, consegnando l’atto ad un professionista che deve provvedere alla notifica all’altra parte. Se la casa familiare risulta nella disponibilità esclusiva del convivente recedente, nel recesso deve essere indicato il termine non inferiore a 90 giorni concesso all’altro convivente per lasciare l’abitazione. La scelta delle parti di formalizzare il contratto di convivenza imporrà ai contraenti di regolamentare ogni aspetto in modo puntuale, al fine di non complicare l’effettivo scioglimento del vincolo che già per legge risulta essere soggetto a tempistiche ed adempimenti precisi. Anche in questo caso il legislatore ha probabilmente omesso la valutazione e la regolamentazione di fattispecie che, in caso di controversie, potrebbero condurre le parti a richiedere l’intervento della magistratura.