Per cambiare il paese bisogna dire la verità. Partendo dai numeri corretti

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(Un caffè Liberale con Veronica De Romanis)

In Occidente, il relativo benessere può contribuire a far dimenticare l’importanza della crescita economica, per noi e per i nostri figli. Se noi crescessimo del 2 percento l’anno, il nostro reddito pro capite raddoppierebbe nel giro di 35 anni. Se ci accontentassimo di crescere dell’1 percento, il reddito raddoppierebbe nell’arco di due generazioni. Se invece non si cresce (come accade all’Italia da oltre un decennio), il reddito resta lì, anzi decresce – depauperato – nel tempo.

La crescita del PIL di un Paese è trainata dall’aumento della produttività, che a sua volta ha bisogno di liberalizzazioni, retribuzioni legate al merito e concentrazione delle risorse da investire sulle eccellenze. Invece più aumenta il peso delle pensioni sul Pil e sul totale della spesa sociale, più vengono sottratte risorse ad usi produttivi, anche sul fronte del welfare o degli incentivi alla crescita e al lavoro. L’insostenibilità del sistema previdenziale è tutta a danno dei più giovani, che sono costretti a pagare contributi obbligatori altissimi, per finanziare i costi delle pensioni presenti, troppo spesso “privilegi carpiti” più che “diritti acquisiti”. 

E’ opportuno più che mai ricordare quanto il talento sia il vero motore di sviluppo e progresso nell’economia contemporanea e che l’iniziativa individuale va lasciata libera di esprimere tutte le sue potenzialità, con la burocrazia pubblica al suo servizio e non viceversa. Maggiore è la libertà, più alta è la creatività. Più c’è competizione e più prevale il merito. Una società aperta, inclusiva e tecnologicamente avanzata è più dinamica, prospera ed equa.

Veronica De Romanis, economista, ha studiato a Roma e alla Columbia University di New York. Ha lavorato per anni al Ministero dell’Economia e ha vissuto a Francoforte. Attualmente insegna Politica Economica Europea alla Stanford University (The Breyer Center for Overseas Studies) a Firenze, all’Università Europea di Roma e alla Libera Università degli Studi Sociali Guido Carli (LUISS) di Roma. Scrive su diverse testate giornalistiche, settimanali e siti web. Ha scritto il libro “Il metodo Merkel. Il pragmatismo alla guida dell’Europa“, e con lei parliamo proprio della “lezione tedesca” che ci farebbe comodo imparare. 

Si parla sempre di riforme, ma qual è il momento migliore per farle? Quanto è più difficile riformare le istituzioni in tempi di crisi economica e politica?
Il momento migliore per implementare le riforme è all’inizio della legislatura quando il governo ha maggiore potere politico. Ciò è ancor più vero se si tratta di un governo di coalizione. L’esperienza insegna che, con l’avvicinarsi delle elezioni, le riforme vere e proprie – ossia quelle che hanno un impatto sul Pil potenziale e sui conti pubblici – lasciano il campo ad interventi volti a guadagnare consenso.

L’uscita dall’euro è diventato un tema un po’ sgangherato della perenne campagna elettorale italiana, grazie anche all’uso dei social network, dove sempre piùinfluenceragiscono e politici seguono: Come commenta, alla luce della sua esperienza, questo fenomeno?
In questo periodo di crisi, l’euro viene sempre di più utilizzato come un capro espiatorio. La strategia è quella di dare risposte facili e di impatto immediato – come quella di uscire dall’euro – a problemi complessi – come quello di uscire dalla crisi. E infatti chi segue questo genere di politica non spiega le conseguenze di un eventuale abbandono della moneta unica. Una risposta forte e chiara, però, è arrivata dalla Grecia. Nonostante tre pacchetti di salvataggi e dose considerevoli di austerità, i greci hanno scelto di continuare ad essere membri dell’unione monetaria.

Se io sono un buon pagatore, perché dovrei formare un consorzio con un pessimo pagatore e poi farmi prestare denaro insieme a lui? Si è parlato spesso di Eurobond, ma come ci si può arrivare senza sanare prima questa contraddizione?
Gli Eurobond – ossia la possibilità di mutualizzare i debiti a livello europeo – scontano, innanzitutto, la mancanza di fiducia tra gli Stati dell’unione monetaria. Con la crisi è aumentata la diffidenza tra paesi membri: non ci si fida più. Questo spiega perché i paesi virtuosi, ossia i creditori come la Germania ma non solo, prima di parlare di “condivisone dei rischi”, vogliono vedere una “riduzione dei rischi”. In buona sostanza, prima di mettere in comune il debito, i governi nazionali devono ridurre il proprio debito a un livello sostenibile. Altrimenti, a pagare per i dissesti finanziari altrui, saranno sempre gli Stati con i conti in ordine.

Quando un club (come la UE) non ha regole d’uscita, è inevitabile che alcuni membri, in determinati momenti, lo vivano come una prigione? E la possibilità che nell’eurozona vi sia ancora in futuro qualche valore comune da difendere (come la serietà finanziaria e il rigore di bilancio) quanto è legata alla capacità di dire “adesso basta” a chi vuole solo socializzare perdite e debiti?
I trattati prevedono l’uscita dall’unione europea (e infatti l’Inghilterra ha indetto un referendum per decidere se restare o uscire, la cosiddetta Brexit), ma non quella dall’unione monetaria. Tuttavia, l’area dell’euro non è una prigione, si può sempre uscire, e la Grecia ci è andata vicino. Le regole fiscali sono necessarie perché l’unione monetaria non è un’unione fiscale. Per poter convivere con una sola moneta, ma con 19 politiche fiscali, è necessario avere delle regole comuni di buon vicinato. Proprio come avviene in un condominio. Altrimenti, come dimostrato dalla crisi, i problemi fiscali di uno Stato membro rischiano di contagiare anche gli altri. Tanto più è grande il paese in crisi – e tanto più è elevato il suo debito come nel caso dell’Italia – tanto più rischia di aumentare la vulnerabilità della zona euro in caso di instabilità finanziaria.

Come fa la cancelliera Merkel a tenere a bada un’opinione pubblica tedesca sempre più riluttante verso i salvataggi degli Stati che non hanno rispettato le regole e non hanno fatto le riforme? Si è sempre trovata nel posto giusto al momento giusto?
La Merkel ha gestito l’opinione pubblica tedesca applicando il suo solito metodo: calma, cautela e piccoli passi. Fino ad oggi è riuscita a far approvare dal Bundestag (il parlamento tedesco) tutti i programmi di salvataggio: 3 per la Grecia, uno per l’Irlanda, uno per il Portogallo, uno per le banche spagnole e infine Cipro. Tuttavia, se andiamo a guardare l’esito delle votazioni, è interessante notare che i voti contrari provenienti dalle fila del partito della cancelliera sono aumentati nel tempo: al primo pacchetto greco hanno votato contro 72 deputati di cui 4 del partito della Merkel; al secondo programma hanno votato contro 100 deputati di cui 29 della Cdu. Al terzo programma, 119 contrari di cui 60 del partito della cancelliera. Questo spiega perché la Merkel considera necessario per i paesi appartenenti all’Unione monetaria avere finanze in ordine: un ulteriore salvataggio, specie se di un paese grande, rischierebbe di non essere approvato.

Nel maggio 2012 l’ex commissario britannico Peter Mandelson diceva: “Siamo molto più bravi a dire come stabilizzare l’Eurozona che a spiegare perché e in vista di quali ragioni dovremmo farlo”. Siamo ancora imcagliati a quel nodo? Come scioglierlo senza politici orientati allo spirito di sacrificio, rigore e soprattutto passione per la libertà – come nel caso della signora Merkel – frutto dell’esperienza diretta vissuta sotto il regime sovietico dell’Est?
L’aver vissuto per 35 anni dall’altra parte del muro ha molto influenzato il modo di far politica della cancelliera. Basti pensare alla recente decisione sulle “porte aperte” ai rifugiati. Angela Merkel sa cosa significa vivere in un regime senza libertà e questo le consente di capire meglio di altri leader politici l’esperienza di chi fugge da una dittatura. Sa, inoltre, che i muri non sono una soluzione perché i muri prima o poi cadono. E infatti lei stessa ha dichiarato che non si tratta di “aprire le porte” – perché le porte erano già aperte – ma semplicemente di “non chiuderle” con dei muri che non portano nulla di buono. Ovviamente c’è anche un aspetto economico: la Germania invecchia, ha bisogno di forza lavoro e i migranti, se integrati, rappresentano una risorsa preziosa per la crescita futuro dell’economia tedesca. Basti pensare al successo dell’integrazione degli oltre due milioni e mezzo di turchi che vivono e lavorano in Germania.

In Italia, nel 2040, per ogni under 19 ci saranno due ultra-sessantacinquenni e per ogni due individui potenzialmente attivi ci sarà un ultra-sessantacinquenne. Quanto gravi sarebbero stati gli effetti del referendum contro la riforma Fornero?
Cambiare la riforma Fornero e introdurre una sorta di flessibilità in uscita rischia di minare la sostenibilità della spesa pensionistica per i prossimi anni. L’Italia ha bisogno di più persone che lavorano (in particolare di donne e di giovani donne) e non di più persone che percepiscono l’assegno pensionistico. Basta guardare i dati. La percentuale di occupati sul totale della popolazione di riferimento nel 2014 è stata pari a 55,7 percento mentre quella tedesca si attesta al 74 percento. L’Italia deve, quindi, recuperare un divario non solo con la Germania (18 punti percentuali) ma anche con gli altri paesi dell’area dell’euro (la media è del 63 percento) considerando che solo la Grecia fa peggio di noi (49,4 percento). C’è poi da dire che l’equazione “mando a casa un anziano e libero un posto per un giovane” non è in alcun modo dimostrata dai dati. Anzi, è vero il contrario: i paesi con tassi di occupazione elevati registrano tassi di disoccupazione tra chi ha un’età compresa tra i 15 e i 24 anni bassi. La Germania ne è l’esempio. Questo perché il posto lasciato libero da chi va in pensione anticipatamente non necessariamente può essere occupato da un giovane. La soluzione è quella di andare avanti con le politiche attive del lavoro, come la creazione di un’Agenzia Unica del Lavoro, parte fondamentale del Jobs Act.

Recentemente ha ricordato che il taglio di spesa realizzaro dal governo non è di 25 miliardi ma inferiore a 400 milioni. Per farlo ha utilizzato un documento del MEF sulla legge di stabilità 2016. Servono più lezioni einaudiane del “conoscere per deliberare” per cambiare il paese o siamo persi nelle narrazioni contemporanee?
Per cambiare il paese bisogna dire la verità. Basarsi su numeri corretti è un punto di partenza necessario.

@antonluca_cuoco