Quando la lotta alla pena di morte è determinante

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In foto Giuseppe Mistretta

Stiamo alla frutta della politica in molti Paesi Esteri e un film si chiedeva sulla guerra civile libanese: “ E ora dove andiamo?”. Se lo chiedono ora oggi Berhanu Bayeh e ad Addis Tedla, i due gerarchi del feroce regime di Menghistu condannati a morte dopo la caduta nel 1991 del despota e perciò da quasi trent’anni ‘ospiti’ della nostra ambasciata ad Addis Abeba. P
erché, certo, dopo la revoca formale della condanna a morte loro concessa dalla presidente della Repubblica Sahle-Uork Zeudé,
la magistratura etiope ha consentito loro anche la libertà vigilata
. Come sarà esercitata, però, è un altro paio di maniche e questo si chiedono molti quotidiani : Saranno costretti a vivere nella capitale etiope con l’obbligo di firma quotidiana in qualche caserma o potranno andarsene negli Stati Uniti o in Canada dove vivono da anni le loro famiglie?
I rancori dei parenti di chi fu vittima dei crimini del ‘terrore rosso’
(circa mezzo milione di morti, secondo Amnesty International) seguito nel 1977-1978 alla deposizione dell’imperatore Hailé Selassié sembrano in buona parte sopiti ma è proprio da escludere l’ipotesi di qualche isolata vendetta?
L’apertura delle autorità etiopi, salutata anche da Luigi Di Maio come una confortante conferma della linea tenuta per tre decenni dal nostro Paese, da sempre contrario alla consegna dei rifugiati a Paesi dov’è in vigore la pena di morte perfino in casi come questo, ha colto di sorpresa anche Giuseppe Mistretta, oggi direttore centrale per i Paesi dell’Africa sub-sahariana e già ambasciatore ad Addis Abeba: “ Ormai quei due li davamo quasi per morti di vecchiaia e rassegnazione dentro il nostro compound. Anni e anni di trattative, incontri, rinvii… E la cosa non si sbloccava mai. Non aver ceduto sulla pena di morte è stato determinante”. Ad Addis Tedla e Berhanu Bayeh, rispettivamente capo di Stato Maggiore e ministro degli Esteri nonché ideologo marxista-leninista del governo dittatoriale di Menghistu, lo stesso Mistretta e un collega degli Esteri, Giuliano Fragnito, avevano dedicato un paio di anni fa un libro, I noti ospiti(«così erano chiamati nelle corrispondenze diplomatiche») raccontando come fossero stati accolti nelle ore successive alla caduta del cosiddetto «Negus Rosso» in un edificio di due camere e cucina dove avrebbero dovuto fermarsi «solo pochi giorni» e dove invece sarebbero diventati per tre decenni una patata bollente, mentre intorno cambiava il mondo, sia per l’Italia sia per l’Etiopia. Trent’anni di solitudine semi carceraria e insieme di libertà, limitata alla passeggiata quotidiana nel cuore di un giardino bellissimo. Il libro finiva così: «La storia è dimenticata, e i suoi protagonisti anche. Il nuovo governo etiopico sembra voler considerare un gesto di clemenza…».