La controversa misura del governo diretta a impedire lo svolgimento di rave party non autorizzati con pene molto pesanti per gli organizzatori può avere, come sempre accade, più chiavi di lettura. Le cronache di questi giorni sono piene d’interpretazioni confliggenti e sarà difficile se non impossibile trovare la quadratura del cerchio che metta d’accordo le forze politiche che si contendono il campo delle scelte.
Il provvedimento, infatti, è di quelli altamente divisori. Capace di creare e alimentare il conflitto per motivi ideologici (ottimi motivi, al contrario di quanto si è pensato per troppo tempo). E, insomma, ben venga la battaglia delle idee. Sarà utile a definire molti contorni oggi slabbrati tra concetti e definizioni che stanno perdendo d’identità e intensità. Dal confronto, anche aspro, potrà venir fuori qualcosa di buono.
L’aspetto più interessante dell’intera faccenda, a parere di questa rubrica, riguarda il principio di autorità. Con questa norma – un decreto che dovrà essere convertito in legge con tutte le modifiche che il gioco parlamentare sarà in grado di produrre – è come se si volesse comunicare agli italiani che lo Stato è tornato. Certo, occorre stabilire in che modo questo avvenga. Ma il messaggio sembra chiaro.
Il timore delle opposizioni è che l’attitudine delle destre ad abbassare il tasso di tolleranza possa tracimare dalla fattispecie specifica – i rave party abusivi – ad altre forme di manifestazione libera del pensiero. Le rassicurazioni ricevute da varie componenti dell’esecutivo e dal ministro dell’Interno in particolare non sono state sufficienti a placare gli animi, soprattutto quelli strumentalmente agitati.
Dunque, i problemi che ora si pongono sono questi: quello lanciato dal governo Meloni è il segnale che qualcosa davvero cambierà nell’ambito dell’ordine pubblico? Come reagirà nei fatti il Paese a questo cambio del costume nazionale? Quanta dose di severità saremo disposti ad accettare prima che ci sia una crisi di rigetto come quella raccontata da Picone e Ficarra nel fortunato film “L’ora legale”?
Gran parte delle risposte potremo averle solo col passare del tempo. Molto dipenderà dal modo con il quale s’introdurrà un cambiamento che a parole e a sentimento è desiderato da molti, anche da quelli che per mestiere devono dirsi contrari. In America, a New York in particolare, l’applicazione della “tolleranza zero” ha dato i suoi buoni frutti anche in termini di ritorno economico.
Abbiamo tutti esperienza, a Napoli come a Roma e Milano, del dilagare di una delinquenza che da noi appare invincibile: padrona di interi quartieri dove Carabinieri e Polizia mal s’avventurano. Gomorra e Suburra insegnano. Ma non possiamo ignorare che a queste espressioni estreme d’illegalità si aggiungono le cattive abitudini di miti cittadini che non pagano le tasse o parcheggiano in seconda fila.
Anche queste sono manifestazioni che a rigore di logica andrebbero contrastate. È difficile, infatti, mettere un limite all’applicazione e al rispetto della legge. Perché combattere gli assembramenti non autorizzati e non i parcheggiatori abusivi? Perché vietare il fumo molesto e non l’evasione fiscale? Sono domande che chi si accinge a guidare il Paese non può certamente evitare di farsi.
E qui torna in ballo il significato della libertà che abbiamo affrontato anche la scorsa settimana. Finché la intenderemo nel senso di fare tutti ciò che ci aggrada – o fare ammuina, come nella recente esperienza di Luigi De Magistris sindaco – saremo ciascuno schiavo dell’altro. Quando capiremo che libertà è innanzitutto rispetto del prossimo potremo cominciare a ragionare seriamente sul tema.