Riforme, la resistibile lentezza della giustizia

183
in foto Marta Cartabia e Mario Draghi

Il dibattito sulla riforma della giustizia, civile e penale ma soprattutto con riguardo a quest’ultima, si presenta a tratti surreale. Come tutti sanno, o dovrebbero sapere, uno dei nodi più duri da sciogliere riguarda i tempi della celebrazione dei processi con conseguente necessità di prevederne una fine.
Questo, naturalmente, nella versione ragionevole della proposta Draghi-Cartabia, presidente del Consiglio e ministro della Giustizia, che supera la pretesa del precedente governo Conte e del Guardasigilli Bonafede di tenere i procedimenti aperti in eterno con buona pace di chi attende di conoscere il suo destino.
In entrambi i casi – si preveda o meno un termine all’azione della legge – sembra darsi per scontato che i processi debbano comunque celebrarsi in tempi lunghi e che per quanto ci si doti di buone intenzioni ci si dovrà rassegnare a questa deriva. Insomma, occorre accontentarsi del meno peggio.
In realtà le cose potrebbero migliorare di molto se ci si convincesse di voler rivoluzionare davvero il sistema alla base delle tante storture che per la loro evidenza e frequenza cominciano a diventare di dominio pubblico come il successo di firma dei referendum voluti da Radicali e Lega dimostra.
Soffermiamoci sul processo penale. Il mestiere chi di accusa e di chi giudica è agli opposti: uno è di parte, l’altro è terzo. Non si capisce perché non si proceda celermente alla separazione delle carriere dato che i pubblici ministeri non hanno niente a che vedere con la somministrazione della giustizia.
Anzi, armati del manganello dell’obbligatorietà dell’azione penale – istituto che andrebbe abolito – sono legittimati a prendere in considerazione qualsiasi evento possibilmente delittuoso ingombrando i tribunali di procedimenti che potrebbero essere ignorati o diversamente trattati.
Al di là del velo delle parole, nei fatti l’obbligatorietà diventa l’altra faccia della discrezionalità perché è materialmente impossibile star dietro a ogni notizia di reato specie se si dà credito anche alle denunce anonime. La conseguenza è che alla fine si finisce per perseguire ciò che il singolo inquirente vuole.
Che dire poi del ruolo della polizia giudiziaria? Al comando del pm di turno, finanzieri carabinieri e poliziotti fanno di tutto per compiacere il loro dante causa e nella ricerca delle prove (in alcuni casi nella confezione delle stesse) mettono uno zelo superiore alla dose prescritta dai codici.
Troppe volte infatti, come le cronache rimandano, l’intera impalcatura del processo risente delle forzature fatte in sede d’interrogatori combinati per orientare le risposte dei testimoni esattamente dove la pubblica accusa desidera. Tutto deve corrispondere a un quadro spesso preconfezionato.
L’inversione dell’onore della prova è ormai diventata una regola. Non è più l’accusatore a dover dimostrare la veridicità di quanto afferma ma è l’accusato a dover smontare il castello delle offese alzato contro di lui. Un esercizio difficile e costoso che molte volte porta all’esaurimento fisico e mentale.
Anche perché all’azione inquirente le procure affiancano un’offensiva mediatica alimentata da indiscrezioni così ben orchestrate da montare l’opinione pubblica contro l’imputato prima della sentenza. Tanto che l’attuale esecutivo ha dovuto limitare il ricorso a trionfalistiche conferenze stampa.
In breve, i difetti del sistema sono ormai noti. Il crollo della fiducia dei cittadini nella magistratura è un dato di fatto. Non servono anni di dibattimento se la prova del reato esiste e non si deve creare nel frattempo. Più fatti e meno congetture aiuterebbero a una migliore organizzazione dei tempi.
E, infine, è un obbrobrio giuridico che le procure propongano appello dopo una sentenza di assoluzione in primo grado perché se il principio è che si debba condannare solo in assenza di ogni ragionevole dubbio qualche dubbio può essere più ragionevole di una sentenza di assoluzione?