Se Napoli «esporta» la migliore classe imprenditoriale

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Se c’è un bene che le città del Sud continuano a esportare in abbondanza, volente o nolente, è l’imprenditore. In questa particolare graduatoria, sulle prime quindici province in Italia prese in esame dalla Camera di commercio di Milano su dati al secondo trimestre del 2013 ben sette appartengono al Mezzogiorno e una (Roma) al centro.

La più generosa è Napoli che, con quasi 108mila capitani d’impresa in trasferta, è seconda nel Paese alla sola Milano che ne conta appena 6mila in più (114.000). Roma è terza con poco più di 75.000, Torino quarta con 57.000. Seguono Bari e Palermo. In classifica trovano posto anche Salerno, Foggia, Reggio Calabria e Catania.
Naturalmente questo esodo di “cariche sociali” non sempre ha una natura virtuosa perché si tratta spesso di “espulsioni” dovute alla difficoltà di trovare lavoro nel luogo di origine. Comunque, il fenomeno è interessante e conferma la grande presenza di attori meridionali ai piani alti del circuito imprenditoriale nazionale.
A questo grado di apertura in uscita si contrappone una forte chiusura in entrata. Se infatti guardiamo a quante cariche d’impresa sono affidate a soggetti nati fuori provincia, l’unica città che compare al di sotto di Roma è Napoli che si piazza al penultimo posto prima di Como e dopo Treviso. (La prima è Milano).

Questo dato – la forte chiusura in ingresso – è confermato da un’altra rilevazione concernente il numero di cariche d’impresa affidato ai nativi delle singole provincie. Qui Napoli è addirittura prima con quasi 400.000 casi seguita nell’ordine da Roma, Milano, Torino. Le altre province del Sud sono Bari, Salerno, Palermo, Catania.
Anche in questo caso l’informazione può avere diverse chiavi di lettura. Piuttosto che discendere da una spiacevole attitudine culturale, lo scarso numero di dirigenti provenienti da altre province potrebbe avere origine dal basso gradimento di cui godono le città del Sud dove si va solo se in qualche modo costretti. (E il titolo di questa rubrica rimanda a un’esperienza del genere).

A conferma ulteriore di questa tesi, un recente rapporto di Confindustria dimostra come l’indicatore di sviluppo regionale pro capite – che guarda a quindici diversi elementi e quindi non solo al Pil – sia di 77 nel Mezzogiorno, fatta pari a 100 la media nazionale, contro un livello del Centro-Nord di 112.
Questa forbice, compresa tra la Lombardia con 120 e la Campania con 69, spiega la poca capienza del tessuto economico meridionale e giustifica quello che lo studio camerale definisce “livello di autoctonicità”: il rapporto tra il totale delle cariche detenute da esponenti locali e il totale delle cariche disponibili nelle singole province.

Nove città sulle prime dieci appartengono al Sud. Nell’ordine: Bari (91,4 per cento), Napoli, Reggio Calabria, Lecce, Palermo, Trapani, Foggia, Cosenza, Messina (88,5 per cento). Unica eccezione, a metà classifica, Bolzano (90,2 per cento). Di contro, la città più aperta alle contaminazioni è Milano (48,6 per cento) seguita da Monza e Prato.
Un altro specchietto della situazione è dato dal rapporto tra il numero di cariche che si esportano e il totale complessivo di quelle che si generano sul posto. Sotto questo profilo si distinguono la Calabria e la Sicilia con Crotone al primo posto (50,1 per cento) seguita da Vibo Valentia, Enna, Caltanissetta, Reggio Calabria e Catanzaro (41 per cento).

Come si vede, quasi un imprenditore su due è forzato in queste province a cercare (e trovare) fortuna altrove ritenendo comodo o necessario abbandonare il luogo di origine che dunque resta affidato ai pochi nativi che riescono, o riuscivano, a ricavare in casa il proprio spazio d’impresa.
L’indagine non tiene conto del sempre maggiore apporto d’imprenditori stranieri che, se preso in considerazione, renderebbe la fotografia ancora più vivace al Nord e più ferma al Sud dove le encomiabili eccezioni di chi si batte per una società aperta non riescono a condizionare il sistema che resta ancora immune dalla competizione tra persone.