Si scrive spending review, si legge spending de più? Ne parliamo con Carlo Cottarelli

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L’economia italiana paga i decenni d’indebitamento dello Stato italiano, con una politica fiscale che ha speso più di quanto tassava, drogando temporaneamente la crescita con una spesa pubblica eccessiva, e con investimenti pubblici che non hanno lasciato traccia di maggiore crescita. È stato inoltre calcolato che la sola spesa per interessi sul debito italiano, dal 1993 a oggi, ci sia costata la bellezza di circa 1650 miliardi di euro, pari al 6% di quel prodotto interno lordo che anche quest’anno rischia di non crescere quasi per nulla o molto poco per cambiare rotta. Intanto i paesi che hanno avuto il coraggio di fare dure e serie riforme hanno ricominciato a risalire la china: in questo scenario, più familiare a chi preferisce studiare i dati rispetto a quelli che amano urlare slogan demagogici, infuria il dibattito intorno alla crescita del PIL in Europa, e sul futuro.

Utile, quindi, alzare gli occhi ed osservare le dinamiche economiche degli ultimissimi anni: se l’Europa è in frenata noi siamo in caduta libera e quindi un problema Italia c’è. Ed è un problemone analizzato e dibattuto da un ventennio che ha ispirato numerosi politici, economisti e tecnici. Qui suggeriamo di rilegger l’ultimo monito arrivatoci dall’Europa, quando la tenuta dell’intera zona euro e con essa i risparmi di centinaia di milioni di cittadini europei furon messi a repentaglio, con mercati allarmati dall’italiana credibilità, evaporata.

Sono passati quasi cinque anni da quando il governo Berlusconi, il 5 agosto del 2011, ricevette la lettera della Banca Centrale Europea che, nella sostanza, gli ingiungeva di mettere ordine nei conti italiani, implementando un piano di dismissioni, di riforma fiscale e di liberalizzazioni, di riforma del mercato del lavoro, della scuola e delle pensioni, di snellimento della giustizia e di sviluppo delle infrastrutture, illustrando le azioni urgenti che qualsiasi governo alla guida di una Italia in declino ventennale, dovrebbe intraprendere in modo spedito.

Da quella lettera del 2011, in cui qualcuno – con problemi di analisi della realtà o malafede – ha visto un complotto contro la democrazia italiana, sembra passato un secolo: non solo per un alternarsi dei governi, precipitoso come in nessun altro Paese UE, ma per una serie ininterrotta di richiami da Bruxelles e di promesse italiane con risultati a tutt’oggi modesti. Fa un certo effetto rileggere la lettera Ue del 2011 e confrontarla con i problemi tutt’ora aperti nelle aule del nostro Parlamento e con il cumulo di promesse, puntualmente rinnovate dal governo Renzi.

Il nostro Paese è malato grave. La malattia non è preoccupante solo per il livello di pressione fiscale letale alla libera impresa e per l’enorme debito pubblico accumulato sulle spalle dei giovani ma anche per la quantità insostenibile ed inefficiente di spesa pubblica. Ragionare di questo ed altro con Carlo Cottarelli è un’occasione preziosa per guardarci allo specchio, aiutati da un punto di vista sia interno che estero all’Italia. Dal 1988 Cottarelli è infatti già a Washington DC presso il Fondo monetario internazionale. Nel 2008 è direttore del dipartimento affari fiscali. Nel 2013 viene chiamato in Italia da Enrico Letta per rivedere – leggi: tagliare – la spesa pubblica. E’ infatti designato commissario per la Spendingreview. L’incarico previsto è di tre anni ma ne passa uno e Cottarelli torna al Fmi come direttore esecutivo per l’Italia. Nel suo ultimo libro “Il macigno. Perché il debito pubblico ci schiaccia e come si fa a liberarsene” spiega come intervenire.

Il penultimo dei super-commissari, che potrebbe anche suonare come il titolo di un film western, come vede il bicchiere italiano; mezzo pieno o mezzo vuoto?
Piuttosto che parlare di bicchieri preferisco usare l’immagine di una nave che e’ in corso di riparazione, anche se sta ancora navigando. Per ora la nave Italia sta navigando in acque abbastanza tranquille (i tassi di interesse sul debito pubblico sono molto bassi e, seppur con qualche sussulto ogni tanto, i mercati finanziari internazionali sono abbastanza tranquilli). E si stanno facendo riforme per riparare i danni subiti nel corso della precedente tempesta (la crisi dell’area dell’euro del 2011-12) e rafforzare la struttura della nave in caso di nuove tempeste. Per far questo occorre approfittare della relativa calma dei mercati finanziari, perche’ non durera’ per sempre.

Nel corso della Sua esperienza di revisione della spesa pubblica nazionale, chi l’ha aiutata di più? E chi invece ha maggiormente osteggiato il processo?
Tutte le riforme per contenere la spesa pubblica fanno male a qualcuno, anche quelle che sono pure riforme di efficientamento, per cui e’ chiaro che l’opposizione e’ venuta da piu’ parti. Hanno aiutato quelli che, come me, pensano che il livello di tassazione in Italia sia troppo alto e che si possa ridurre stabilmente solo riducendo la spesa rispetto al Pil, il che dovrebbe essere ora piu’ facile visto che il Pil ha ricominciato a crescere.

L’iniziale vincolo di non impiegare le risorse della spending review per finanziare nuova spesa pubblica fu poi cancellato con bonus e nuove spese: così però non se ne esce. Ciò illustra l’incapacità di ridurre la longa manus del Leviatano pubblico, tutt’altro che intenzionato a dimagrire, perdendo potere. Sono troppo pessimista?
Direi di si. Io vedo il bonus di 80 euro come una riduzione della tassazione sul lavoro, non come un aumento di spesa. Il fatto che l’ISTAT lo classifichi come spesa e’ dovuto a definizioni tecniche, ma il fatto sta che chi lavora (ed entra nella fascia di reddito coperta dal bonus) si vede ridotto il carico fiscale. Se poi guardiamo al medio termine, vediamo che tra il 2009 e il 2014 (l’ultimo anno per cui ci sono stime definitive dall’ISTAT) la spesa primaria delle pubbliche amministrazioni e’ aumentata solo dell’1,4 per cento (non all’anno, ma su cinque anni), uno degli aumenti piu’ bassi in Europa. Abbiamo dovuto farlo perche’, a causa del rallentamento del Pil, anche le entrate dello stato non aumentavano. Ma e’ stato cumunque un risultato importante. Certo, molti tagli sono stati “lineari”, ed e’ per questo che ora occorre intervenire con riforme nella struttura della spesa. Ma i tagli ci sono stati.

La bassa produttività della PA si lega troppo spesso a organici sovradimensionati ed al ruolo d’ammortizzatore sociale improprio che le strutture pubbliche da sempre esercitano in Italia. Nella legge delega sulla riforma della Pubblica amministrazione quanto si recepiscono le Sue analisi e suggerimenti?
Ci sono molti aree di sovrapposizione tra i miei suggerimenti e la legge delega. Ma occorrerà veder in concreto i testi legislativi finali e poi la fase di effettiva implementazione. La legge delega e’ stata presentata in parlamento quasi due anni fa, è stata approvata quasi un anno fa, molti decreti legislativi sono stati fatti circolare ma ancora nessuno di questi e’ stato finalizzato. E poi ci sara’ la fase di implementazione. Insomma, anche assumento che alla fine il contenuto della riforma sia adeguato, mi sembra che comunque occorra accelerarne il completamento e puntare anche ad avere dei chiari risparmi di spesa, oltre che una semplificazione dei processi della pubblica amministrazione.

Parliamo di pensioni, un capitolo di spesa che tocca i 270 miliardi. È una cifra semplicemente troppo grossa per ignorarla ma è ancora troppo difficile spiegare all’opinione pubblica perché rappresenta un furto intergenerazionale, da cosa dipende?
Il problema è che le molte riforme che sono state approvate finora hanno sempre mirato a contenere le pensioni di chi ancora stava lavorando
La nostra spesa pensionistica resta una delle piu’ alte al mondo rispetto al PIL, il che riduce lo spazio per altre forme di spesa volte alla crescita futura (come la spesa per la pubblica istruzione) e per una riduzione della tassazione sul lavoro. Se guardiamo in avanti, la spesa pensionistica italiana dovrebbe ridursi nel tempo rispetto al Pil, per effetto delle molte riforme approvate negli anni passati, l’ultima essendo la riforma Fornero. Ma sara’ una riduzione lenta. Inoltre, i risparmi si avranno solo perche’ i nuovi pensionati (gli attuali lavoratori) andranno in pensioni a condizioni meno favorevoli di quelle di chi in pensione gia’ ci sta e che riceve pensioni piu’ alte di quelle che corrispondono ai contributi pagati. Molte di queste pensioni sono basse e non si possono certo ridurre, ma al di sopra di una certa soglia, come avevo proposto nella mia revisione della spesa, si poteva intervenire, utilizzando, per esempio, i relativi risparmi per ridurre i contributi previdenziali per i nuovi assunti. Dal punto di vista intergenerazionale sarebbe stata una scelta piu’ equa.

La cultura del debito è poco sana ma continua a diffondersi, il debito sembra non appartenere a nessuno mentre invece appartiene a tutti.La straordinaria necessità di riqualificare la spesa in Italia potrà essere davvero assolta solo da un intervento della Troika, libera dall’agire “cacciando voti” con elettori disponibili a scambiarli con aiuti e favori?
Spero proprio di no! Nonostante il Fondo Monetario Internazionale svolga un ruolo essenziale per sostenere paesi in crisi, e’ certo meglio non arrivare al punto di dover chiedere il sostegno del Fondo. Dobbiamo agire prima di cadere in una nuova crisi.

Il macigno rappresentato dal debito pubblico accumulato condiziona tutto il paese e la sua crescita ma nonostante il tasso di interessi sul debito sia oggi basso –indi sarebbe il momento per attaccarlo- pochi sembrano appassionati ad agire con determinazione e lungimiranza. Come spiegare ciò e come fare pressione sul decisore pubblico?
E’ abbastanza naturale dimenticarsi del debito quando i tassi di interesse sono bassi. Si tende a pensare che resteranno bassi per sempre e quindi a procrastinare l’aggiustamento. Spero che stavolta faremo meglio che in passato, magari per essere in linea con le regole europee. Non ci vuole molto. Quelle che faccio vedere nel mio libro e’ che per pareggiare il bilancio dovremmo tenere costante la spesa pubblica primaria (al netto dell’inflazione) per 3-4 anni. Non si tratta quindi di una cura draconiana ma semplicemnte di evitare di spendere le maggiori entrate reali che la crescita (anche se a tassi moderati) portera’ nei prossimi anni.

Assistiamo, anno dopo anno, a livelli di pressione fiscale e spesa pubblica sempre crescenti, con debito pubblico in aumento (134% del Pil, come l’orologio dell’Istituto Bruno Leoni ci ricorda quotidianamente) ma sentiamo parlare costantemente di austerità e politiche neo-liberiste. Qualcosa non torna…
C’è troppa polemica e poca chiarezza su questi temi che vengono sfruttati per fine politici. E’ molto di moda dire che tutti i nostri problemi sono dovuti alla austerita’. Io ho scritto nel 2012 che troppa austeriata’ fa male ma un po’ di austerita’ e’ necessaria per un paese che ha un debito publico tra i piu’ alti al mondo.