Sos suolo, non è rinnovabile e lo stiamo perdendo. Nasce la fondazione Re Soil

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Roma, 27 gen. – (Adnkronos) – Il suolo è una risorsa non rinnovabile: per formare uno strato di soli 10 cm ci vogliono 2mila anni ma le politiche nazionali, europee e internazionali hanno trascurato la terra e la sua fertilità con risultati allarmanti. Un terzo dei suoli mondiali è degradato, i terreni produttivi si riducono di 1.000 kmq ogni anno solo a causa dell’impermeabilizzazione provocata da costruzioni e strade. In Italia, più del 4% del territorio è sterile e oltre il 21% è considerato a rischio desertificazione.

Eppure, i terreni fertili del Pianeta potrebbero assorbire ogni anno 0,7 miliardi di tonnellate di carbonio, l’equivalente di tutte le emissioni prodotte dalla combustione dei fossili nell’intera Unione Europea. Per dare impulso a un reale cambiamento, a partire dalla salute del suolo e dal concetto chiave di rigenerazione territoriale, nasce la Fondazione Re Soil: a presentarla oggi, Catia Bastioli, ad di Novamont e membro della Mission Board sul suolo della Ue; il rettore del Politecnico di Torino Guido Saracco; Francesco Ubertini, rettore Alma Mater Studiorum Università di Bologna.

L’obiettivo della fondazione Re Soil, promuovere attività nei settori della ricerca scientifica, del trasferimento tecnologico, della formazione e divulgazione, e della creazione di consapevolezza, per conservare la salute del suolo, promuovere il recupero di sostanza organica per sostenere la qualità della vita e la decarbonizzazione del nostro sistema.

“Per contrastare la crisi climatica e ambientale occorre il riconoscimento dell’ecosistema terra: oggi il suolo è un oggetto legale non identificato – spiega Catia Bastioli – Serve una direttiva europea che lo protegga: gli incentivi devono andare non solo a ridurre l’emissione di carbonio in atmosfera, ma anche per riportare il carbonio nel suolo. Protagonisti di questa svolta dovrebbero essere gli agricoltori, che andrebbero remunerati non solo per la loro attività di produzione di beni alimentari ma anche per quella di custodi della terra, per il loro contributo nel riportare carbonio e quindi fertilità nei terreni”.

C’è una correlazione stretta ma complessa tra gestione dei suoli, agricoltura e crisi climatica, spiegano i promotori dell’iniziativa. Da una parte, la perdita di materia organica nei terreni è responsabile a livello globale del 20% delle emissioni di CO2 nell’atmosfera. Il settore agricoltura e foreste è responsabile di poco meno di un quarto delle emissioni globali di gas a effetto serra. L’Europa è il quarto emettitore di gas serra dall’agricoltura del mondo.

Dall’altra parte, i terreni fertili e la stessa produzione agricola sono tra le prime vittime degli eventi estremi, delle alluvioni, delle siccità che sono diretto risultato del cambiamento in atto. Già oggi l’erosione colpisce il 20% della superficie dell’Unione: ogni anno si perdono 10 tonnellate di terra per ettaro.

Il cambiamento climatico potrebbe condurre entro il 2050 a una riduzione della produzione agricola fino al 50% in alcune regioni, Italia e Mediterraneo in testa. Anche per queste ragioni l’Unione Europea ha recentemente dato vita ad una mission board che ha come mandato quello di identificare linee di intervento per un suolo salubre e fertile.

A livello globale i costi annuali stimati del degrado del suolo variano tra 18 miliardi di dollari e 20 trilioni di dollari. La perdita di servizi ecosistemici a causa del degrado del suolo costa tra i 6,3 e i 10,6 trilioni di dollari all’anno, pari al 10-17% del Pil mondiale.

“Il nostro primo obiettivo è dare il via a una rivoluzione produttiva che veda al primo posto la creazione di una strategia di bioeconomia sostenibile, basata sui territori – continua l’ad di Novamont – In primo luogo utilizzando i rifiuti organici come compost per ridare fertilità ai terreni. In Europa su un totale di 96 milioni di tonnellate di rifiuto organico soltanto il 33% viene riciclato mentre il 66% finisce ancora in discarica. L’Italia sta un po’ meglio, con un riciclo intorno al 50%, ma resta ancora moltissimo da fare”.

In questo senso “un obiettivo prioritario deve essere quello di evitare accumulo nei suoli mediante l’utilizzo di prodotti in grado di biodegradare in diversi ambienti (compostaggio industriale, compostaggio domestico, nel suolo, nei sistemi di depurazione delle acque), in particolare per quelle applicazioni in cui esiste il rischio di rilascio accidentale e accumulo di residui”, conclude Bastioli.

Per il rettore del Politecnico di Torino Guido Saracco, è fondamentale “attivare azioni specifiche per creare consapevolezza del problema e per intervenire sui diversi settori delle filiere integrate accelerando l’adeguamento delle infrastrutture, mettendo in rete le migliori soluzioni tecnologiche esistenti, investendo e facendo innovazione su campo, frenando la degradazione e l’inquinamento ed operando in sinergia con le comunità locali per un modello di sviluppo che metta al centro un suolo sano e pulito, fondamentale per la vita sul pianeta Terra”.

In questo contesto, aggiunge, “nasce anche l’opportunità di sviluppare tecnologie fisiche, chimiche, biotecnologiche in grado di utilizzare le diverse materie prime rese disponibili. Importanza delle tecnologie rigenerative, capaci cioè di rigenerare risorse naturali soggette a grave degradazione, con particolare attenzione al suolo e all’acqua”.

“La bioeconomia, ossia la produzione agro-forestale e i servizi ecosistemici, la produzione di cibo ma anche di bioprodotti e biocombustibili, dipende in maniera determinante da un suolo fertile. Ma la pressione antropica esercitata sui suoli e la crescente perdita di materia organica compongono una minaccia per la sicurezza alimentare in varie aree del mondo – ricorda Francesco Ubertini, rettore Alma Mater Studiorum – Università di Bologna – C’è dunque bisogno di invertire la rotta, favorendo l’apporto di materia organica nel suolo e la sua assimilazione e, nel contempo, un suo uso più sostenibile e sapiente. Questo richiede ricerca e innovazione ma anche formazione e informazione, e questo sarà l’apporto garantito dalle università in questa nuova azione strategica”.

La rivoluzione di una bioeconomia basata sui territori non solo può rappresentare un’opportunità per la rigenerazione dei suoli, ma anche per l’economia europea, attraverso lo sviluppo di un’impiantistica adeguata, la messa in campo di processi biochimici, fisici e biotecnologici per trasformare scarti in prodotti, e la creazione di nuovi posti di lavoro. Uno studio dello European Compost Network indica che già oggi la raccolta e il trattamento dei rifiuti organici genera 23mila posti di lavoro. Se il 100% dell’organico fosse correttamente trattato, si potrebbero aggiungere ulteriori 52mila posti di lavoro in area rurale e 16mila in area urbana. In Italia, se la raccolta differenziata dell’umido fosse estesa a tutti i Comuni, l’occupazione potrebbe crescere dagli attuali circa 9.900 posti di lavoro e 1,8 miliardi di euro di fatturato a 13.000 addetti e 2,4 miliardi di euro.