Studi economici: Sud, Italici e altri tesori sulla via di Damasco

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Nei dibattiti sul Mezzogiorno è quasi inevitabile che, ad un certo punto, qualcuno mi domandi cosa ne penso del famoso divario. Aumenta? Diminuisce? La politiche utilizzate sono corrette? Cosa bisognerebbe fare per chiuderlo? In quale prospettiva? Si potrebbe discutere per ore. Ma la verità è che di fronte a quella parolina ho imparato a ritrarmi. Perché, generalmente, chi parla di divario non intende aprire un’alata discussione (che peraltro lo annoierebbe a morte). Ha solo un’esigenza in mente: quella di scaricarsi la coscienza, di sostenere che la situazione è nera, che è colpa degli altri (il governo, il Nord, la Germania ecc. ) e che, in ultima analisi, per un privato cittadino come lui non c’è niente da fare: non vale neppure la pena di “muover foglia”. Così rispondo che indubbiamente i divari esistono. Ma non riguardano solo il Nord e il Sud (quelli a cui tutti pensano). Vi sono i divari tra le diverse zone del Sud (e del Nord). Il mio scopo, naturalmente, è di far capire che il futuro dei Sud è innanzitutto nelle mani dei meridionali (dovrà basarsi fondamentalmente sulle loro forze); che la situazione non è affatto disperata; e che chi dorme… non ha diritto a lamentarsi.

Italici

Ho sostenuto più volte la necessità di un dialogo tra italiani ed italici: nell’interesse reciproco. Continuo a pensarlo; e ritengo anche che questa sia una delle carte migliori che potremo giocare a livello interno ed internazionale nei prossimi anni. Mi rendo conto, tuttavia, che un uso sagace e fruttuoso di tale relazione è tutt’altro che facile. Innanzitutto, bisogna capirli, gli italici: laddove si trovano. Anche se si presenta una buona opportunità alla loro portata in Italia, non possiamo pretendere che si comportino come facciamo noi. Desiderano valutare le condizioni di vita, interpellare le loro famiglie e così via. L’attrattività dovrà essere molto forte per farli decidere. E poi, non è detto che le cose andranno come speravano; anche perché non conoscono bene l’Italia e rischiano di rimaner delusi. Non ne capiscono la complessità, la tortuosità, le resistenze: innanzitutto perché pensano che non dovrebbero esistere. Continuo a pensare che l’apporto italico potrà (dovrà) essere decisivo per costruire l’Italia del futuro, soprattutto per imboccare intelligentemente un sentiero fed-democratico. Ma il punto è che lavorar bene, non è affatto facile.

Fare

Anzi: “far bene” è difficile, certamente – come e (talvolta) più del “dire bene”. Richiede grande creatività, dedizione, passione, continuità, fantasia. Posso dire che, soprattutto riguardo alle imprese, abbiamo accumulato nel tempo una grande esperienza vis-à-vis. Quando avevamo un partner pubblico (di qualsiasi tipo), le nostre “campagne” (a favore delle Pmi, dell’emersione, delle forme consortili e cooperative, della buona amministrazione del federalismo democratico) hanno finito per arenarsi; hanno proseguito, invece, senza inciampo, quelle campagne, quando siamo andati avanti da noi. Ed oggi non è affatto un caso che il nostro Istituto internazionale Colorni- Hirschman sia finanziato privatamente.

Tris

Sorpresa: la nostra idea che l’intraprendenza di tipo imprenditoriale debba affermarsi gradualmente nella gestione diffusa del Paese – nel privato, nel pubblico e nel terzo settore – sembra oggi trovare un’accoglienza crescente in quest’ultimo. Da un lato le difficoltà di finanziamento delle iniziative sociali, da un altro l’esigenza di tanti giovani di costruirsi un futuro sostenibile dall’interno del settore, da un terzo il ribasso delle ideologie: molti fattori sembrano dunque aver sospinto le coscienze verso un ripensamento. I sintomi di gradimento e di impegno imprenditoriale nel terzo settore si stanno moltiplicando. L’importante è che ci si renda conto della grande difficoltà del compito, dell’apprendimento, del lavorio di fino, della continuità che richiede – sempre che, naturalmente, si intenda camminare sulla strada dell’incivilimento (chi era costui?).

Welfare

Il grande sviluppo del terzo settore nell’Italia dei decenni trascorsi rappresenta in un certo senso la controparte dei limiti del nostro sistema di welfare a tutti i livelli. Si è formato così nel tempo un certo equilibrio mobile tra mano pubblica e terzo settore – nel bene e nel male. Nel bene perché iniziative giovanili esistenti hanno sopperito a parte delle manchevolezze pubbliche; nel male perché si è creata una forma di convenienza reciproca assistenzialista (se non addirittura un pactum sceleris) che ha giocato a favore delle inerzie, invece che a favore del cambiamento.

Cambiamento

Eppure non dobbiamo illuderci: le forze dell’inerzia e della resistenza pubblica, privata e del terzo settore sono ancora potenti. Il nostro compito è d’avanguardia, o, se si preferisce, è quello del tarlo, della formica. L’importante è essere autonomi, puntare al risultato, creare massa critica, sprigionare impulsi positivi sulle nostre realtà – dall’interno e dall’estero. Dobbiamo mostrare che si può: soprattutto nel settore pubblico. Quando ho cominciato a lavorare a Napoli, trent’anni fa, si diceva “il posto ‘a posta è sempre o’ meglio posto”. Ora invece, se l’attuale operazione di privatizzazione avrà successo, la nostra posta potrebbe diventare leader di settore in Europa.

Cultura

Abbiamo l’idea colornhirschmaniana della costellazione favorevole delle circostanze che bisogna saper ghermire, e dunque della ricerca delle soluzioni possibili (di processo e di risultato). Inoltre, sappiamo che la concorrenza sospinge verso il cambiamento e che l’interazione uscita-voce può mettere in moto meccanismi di recupero. Più esattamente, la concorrenza, che è particolarmente vivace nell’epoca della globalizzazione, funziona come una sorta di “bere o affogare”: può essere utile, ma può anche far danno. Analogamente l’uscita può inibire la voce e/o viceversa; oppure quell’interazione può mettere in moto una sorta di circolo virtuoso. La questione diventa allora: come agire, in ogni soluzione determinata, per combattere i fenomeni negativi e sviluppare quelli positivi? Un esempio può scaturire dalla cultura. Concorrenza ed uscita- voce non esistono in vitro: si muovono all’interno delle culture che le donne e gli uomini creano attorno a sé senza sosta e che avvolgono per così dire, giorno dopo giorno, la vicenda umana. Si tratta, insegna Geertz, di tre aspetti (per lo meno) su cui è importante far leva. Quello del libero arbitrio, quello della formazione, e quello della base culturale (delle sue caratteristiche, anche inconsapevoli – si pensi al meglio dell’Italicità). Quando facciamo un ragionamento sulla necessità di accettare le sfide del nostro tempo; sulla ricerca di un punto d’equilibrio virtuoso tra privato e pubblico, tra uscita e voce; sul combattere la pigrizia e mettersi all’opera; sull’apprendimento come chiave del successo; sull’orgoglio meridionale, non facciamo altro che “toccare” tutti e cinque gli ambiti appena richiamati: per cercare di sospingerli sulla via di Damasco.