Telefo: il diritto di conoscere le proprie origini

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Approvato in prima lettura a Montecitorio il testo di legge presentato da tre parlamentari campani

Al museo archeologico Nazionale di Napoli è conservato un bellissimo affresco riproducente la scena di Eracle che ritrova il figlio Telefo allattato da una cerva. L’affresco – per uno strano caso del destino – proviene dall’Augusteum di Ercolano, città della collega Luisa Bossa, prima firmataria della prima proposta di legge sul ‘diritto alle origini biologiche’. Telefo. Chi era costui? Non proprio un ‘personaggetto’ di second’ordine, visto che le sue imprese ebbero l’onore di essere rappresentate sull’altare di Zeus a Pergamo (ora al Pergamonmuseum di Berlino). Secondo Diodoro Siculo e lo Psuodo-Apollodoro, Eracle giunto in Arcadia, ubriaco, violentò Auge (figlia di Aleo, re di Tegea). La fanciulla, rimasta incolpevolmente incinta, partorì un bambino – oggi si direbbe ‘in anonimato’ -, che fu nascosto segretamente nel tempio di Atena. Aleo, scoperta l’indesiderata e infamante maternità, decise di esporre il neonato sul monte Partenio e di far vendere Auge come schiava in terre lontane. Il piccolo, allattato da una cerva, fu chiamato Telefo, in onore della prima nutrice (thelē, “mammella” e élaphos, “cervo”). La madre, invece, fu generosamente riscattata dal re di Misia Teutrante. Diventato adulto, Telefo, desideroso di avere notizie sulla madre, si recò a Delfi, dove l’oracolo gli consigliò di recarsi in Misia. Qui giunto (con l’amico Partenopeo, anch’egli esposto sul monte Partenio), il giovane aiutò Teutrante a sconfiggere i suoi nemici, ricevendo in premio Auge, senza ovviamente sapere però chi fosse realmente. Ma la donna, riconoscendolo, svelò al figlio la sua vera identità. Teutrante decise allora di adottare Telefo come suo erede… e – come si dice – tutti vissero felici e contenti. Questo il mito. Ben altra la realtà. Soprattutto la realtà dei figli non riconosciuti alla nascita che, nel nostro Paese, diversamente dai figli adottivi riconosciuti, non possono, per legge, ricorrere al tribunale per scoprire l’identità dei genitori biologici. Né hanno un oracolo di Delfi a cui rivolgersi, ahimè. Né sostituto dell’oracolo – mala tempora currunt – può essere eventualmente considerato un ipotetico funzionario corrotto di qualche presidio ospedaliero che, in cambio di una lauta mazzetta, mette a disposizione di un disperato richiedente un polveroso fascicolo… La conoscenza delle proprie origini costituisce un presupposto indefettibile per la costruzione della propria identità personale. Lo ha sancito anche la Corte Costituzionale che, con la sentenza 278/2013, si è pronunciata sul tema del diritto del figlio adottato a conoscere le proprie origini. La Consulta ha risolto la delicata questione del bilanciamento tra questo diritto e quello della madre a rimanere anonima, con una sentenza additiva che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 28, comma 7, della legge n. 184 del 1983 nella parte in cui non prevede, nel rispetto della privacy, la possibilità per un giudice di interpellare la madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata, su richiesta del figlio, ai fini di un’eventuale revoca del suo “segreto” (che, perciò, non sarebbe più «irreversibile»). Tale mutamento giurisprudenziale è avvenuto anche sulla scorta della sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo «Godelli contro Italia», con la quale i giudici di Strasburgo hanno condannato l’Italia, proprio perché la nostra legislazione non stabilisce un equilibrio e una proporzionalità tra gli interessi in gioco. Per la difesa di queste istanze, di cui a suo tempo già Telefo si era fatto interprete, è nato nel 2009 il «Comitato per il diritto alle origini », con l’obiettivo di consentire a migliaia di cittadini italiani, figli adottivi non riconosciuti alla nascita, di poter completare la propria identità personale riannodando – fin dall’origine – i fili della propria storia. Giovedì scorso, finalmente, è stato approvato in prima lettura a Montecitorio il testo di legge unificato “Disposizioni in materia di accesso del figlio adottato alle informazioni sulle proprie origini e sulla propria identità”, sintesi di varie proposte, di cui tre di parlamentari campani che, pur appartenendo a diversi schieramenti politici, convergono sulla necessità del riconoscimento di questo nuovo diritto: Bossa (che già nella precedente legislatura si era meritoriamente fatta promotrice di una pdl), Sarro, e la mia. La strada è tracciata. Sarà compito del Parlamento, dunque, riconoscere dignità al desiderio dell’adottato che a un certo momento del proprio percorso di vita voglia conoscere il punto d’inizio della propria esistenza. E ciò senza violare il diritto fondamentale della donna che, all’epoca del parto, abbia deciso per l’anonimato (si riconosce, infatti, soltanto ad essa la possibilità di porre in discussione le scelte passate). La modifica della normativa proposta mi sembra efficace, contemperando il bilanciamento tra due diritti: quello alla conoscenza delle proprie origini (con l’accesso a preziose informazioni mediche per la cura delle malattie ereditarie) e quello alla riservatezza (non configurandosi alcun obbligo per la madre), senza che il secondo schiacci e annulli il primo in modo assoluto. Certo, qualcuno dirà che il diritto della madre a non essere nominata ha rappresentato, in passato, un elemento importante nella lotta contro l’abbandono o la soppressione di neonati in situazioni di forte disagio sociale. È vero, ma non può costituire un alibi a non agire. Soprattutto dopo la sentenza della Corte Costituzionale (e in considerazione dell’evoluzione del costume) non possiamo più consentirci di negare tutela ai diritti del nato. Credo che ieri sia stata scritta una bella pagina in Parlamento. Anche Telefo ne sarebbe contento.