TFR: dalle origini alla busta paga

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La legge (art.2120 c.c.) definisce il TFR (trattamento di fine rapporto) come la somma erogata dal datore di lavoro a tutti i lavoratori subordinati che, per qualunque ragione, abbiano posto termine ad un rapporto di lavoro. La modalità di calcolo prevede che la cifra spettante al lavoratore  venga calcolata sommando, per ogni anno di servizio, una quota pari all’importo relativo alla retribuzione annua divisa per 13,5.

La normativa sul TFR si applica a tutti i lavoratori del settore privato ed ai dipendenti del settore pubblico contrattualizzato, mentre non è prevista la sua applicazione per i lavoratori autonomi e per i contratti di collaborazione coordinata e collaborativa.

L’istituto, introdotto dalla l.n. 297/1982, nasce sulle ceneri della cd. “indennità di anzianità”, emolumento calcolato sulla base dell’importo della ultima retribuzione percepita per gli anni di servizio prestati. Fin dagli albori della sua storia il trattamento di fine rapporto ha avuto un ruolo di rilevante importanza nella vita economica e sociale di grandi fasce di lavoratori, portando il legislatore a riformare più volte la disciplina di riferimento, per meglio adattarla alle contingenti esigenze del panorama economico e lavorativo del paese.

Per ovviare agli effetti negativi che lo stato di insolvenza del datore di lavoro avrebbe potuto provocare alle spettanze dei lavoratori in ordine al trattamento di fine rapporto, l’art. 2 l.n. 297/1982, ha istituito presso l’Inps il “Fondo di garanzia per il trattamento di fine rapporto”, con lo scopo di erogare in sostituzione del datore di lavoro, agli aventi diritto, il TFR e le ultime tre mensilità.

In alcuni determinati casi espressamente previsti dalla legge, il lavoratore, in presenza di una serie di requisiti, può richiedere l’anticipazione di una quota del TFR non superiore al 70% del montante accantonato al momento dell’istanza. L’art. 2120 c.c. elenca i casi in cui è possibile richiedere l’anticipo:

  • spese sanitarie per terapie ed interventi straordinari riconosciuti dalle strutture pubbliche,
  • acquisto della prima casa per sé o per i propri figli documentato da atto notarile di compravendita o contratto preliminare.

Solo il prestatore di lavoro con almeno 8 anni di servizio presso lo stesso datore di lavoro può fare istanza di anticipo del trattamento di fine rapporto. L’anticipo, che può essere concesso solo entro il limite del 10% degli aventi titolo (non più del 4% del numero totale dei dipendenti), può essere richiesto una sola volta nella vita lavorativa del dipendente e viene detratto dal restante TFR da corrispondere al termine del rapporto lavorativo.  I contratti collettivi nazionali ed integrativi possono prevedere discipline diverse, naturalmente in melius.

Il trattamento di fine rapporto, coerentemente con la ratio che lo vede come un emolumento differito rispetto al rapporto di lavoro, atto ad arginare le eventuali difficoltà economiche che il lavoratore potrebbe avere in mancanza della retribuzione, è soggetto, ai sensi della legge, ad una rivalutazione annuale del 1,5% fisso in aggiunta al 75% dell’aumento dell’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati. In tal modo il legislatore ha predisposto una misura volta ad affievolire la perdita del potere d’acquisto del TFR.

Con l’emanazione del decreto legislativo n.252/2005  il trattamento di fine rapporto assume un ulteriore ruolo, divenendo modalità di finanziamento dei fondi di previdenza complementare. Al lavoratore dipendente è stata conferita infatti la possibilità di utilizzare il proprio TFR per finanziare una pensione integrativa che verrà versata contestualmente a quella d’anzianità. La legge, dando la possibilità al dipendente, entro un tempo limitato, di operare la scelta se mantenere il proprio trattamento di fine rapporto presso il datore di lavoro o versarlo nei fondi (aperti o di categoria) di previdenza complementare, ha previsto un peculiare meccanismo di silenzio-assenso: decorso il termine previsto dalla norma (sei mesi dall’ingresso in azienda per il neo assunto, e il 30 giugno 2007 per i dipendenti già in forza), il TFR sarà automaticamente trasferito nel fondo di previdenza complementare che nell’azienda ha ottenuto il maggior numero di adesioni. Viene data inoltre possibilità all’azienda di prevedere, in accordo con le rappresentanze sindacali aziendali, la devoluzione del TFR presso un fondo di previdenza aperto, generalmente rappresentato da una società assicurativa o di gestione del risparmio.

Ma è stata la legge di stabilità 2015 ad attuare quella che è stata considerata come una vera e propria rivoluzione del tradizionale paradigma relativo al trattamento di fine rapporto: la l.n. 190/2014 ha infatti previsto in via sperimentale (per il periodo 1 marzo 2015 – 30 giugno 2018) che i lavoratori dipendenti del settore privato assunti da almeno sei mesi possano richiedere al datore di lavoro che la quota maturanda del proprio TFR venga corrisposta  in busta paga come integrazione della retribuzione mensile (QuIR – quota integrativa della retribuzione).

Sono esclusi dall’applicazione della disciplina della QuIR i lavoratori domestici, del settore agricolo ed i dipendenti in forza presso datori di lavoro che hanno predisposto un piano di risanamento del debito o sono sottoposti a procedura concorsuale.

La voluntas legislatoris sita dietro l’introduzione della misura si concretizza nella possibilità che un elemento ulteriore di carattere retributivo all’interno della busta paga possa conferire quella flebo di liquidità necessaria a dare una spinta ai consumi delle famiglie in un momento dove l’incertezza economica la fa da padrone.

Ma è stato cosi? Non proprio.

Quello che è stato salutato come uno degli assi nella manica per la ripresa economica del paese, non si è rivelato foriero, a circa un anno e mezzo dalla sua entrata in vigore, dei risultati sperati. La ragione è semplice quanto immediata: tassazione eccessiva. Generalmente infatti il trattamento di fine rapporto viene tassato separatamente con un’aliquota agevolata come previsto dall’art 17 Tuir ; la QuIR invece, risolvendosi sostanzialmente in un emolumento integrativo della retribuzione, contribuisce a formare la base imponibile per la tassazione del reddito da lavoro dipendente, venendo assoggettato ad imposizione secondo il regime ordinario, comprensivo delle addizionali provinciali e regionali. Questa è la ragione principale della scarsa adesione alla misura adottata nella legge di stabilità a cui si aggiunge una generale propensione del mondo lavorativo a non allontanarsi dal classico schema in cui è sempre stato inquadrato il trattamento di fine rapporto, nonostante le sue alterne vicende legislative ed i numerosi tentativi di modificarne forma e funzione.