Troppo cemento, l’Italia perde un terzo di terra coltivata

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Cattivi genitori siamo stati. Il dibattito politico-economico della settimana, pure tra molti e interessanti spunti offerti, ci ha inchiodato in particolare alla responsabilità della pesante eredità che noi – genitori non proprio attenti e parsimoniosi – lasciamo ai nostri figli.

“I padri han mangiato uva acerba e i denti dei figli si sono allegati” verrebbe da dire con il profeta Geremia, dal momento che la prima riflessione riguarda proprio l’agricoltura. Dunque, in occasione della Giornata Mondiale della Terra, in Italia è risuonato in particolare l’accusa della Coldiretti: “La crisi del settore agrario non è solo di tipo economico, ma anche di tipo ambientale”. E per una volta il riferimento non è al classico inquinamento cui siamo abituati pensare, ma ad un altro e ben più drammatico e sottovalutato problema. “L’ultima generazione – questa la denuncia dell’organizzazione – è responsabile della perdita in Italia del 28 per cento della terra coltivata, per colpa della cementificazione e dell’abbandono provocati da un modello di sviluppo sbagliato che ha ridotto la superficie agricola utilizzabile negli ultimi 25 anni ad appena 12,8 milioni di ettari”.

Bisogna correre ai ripari, fin che è possibile: “Per proteggere la terra e i cittadini che vi vivono – dicono gli imprenditori del settore primario – l’Italia deve difendere il proprio patrimonio agricolo e la propria disponibilità di terra fertile con un adeguato riconoscimento sociale, culturale ed economico del ruolo dell’attività agricola”. Non solo. “Occorre combattere concretamente i due furti ai quali è sottoposta giornalmente l’agricoltura: da una parte il furto di identità e di immagine che vede sfacciatamente immesso in commercio cibo proveniente da chissà quale parte del mondo come italiano; dall’altra il furto di valore aggiunto che vede sottopagati i prodotti agricoli senza alcun beneficio per i consumatori per colpa di una filiera inefficiente”.

Insomma, bisogna ripensare il modello di sviluppo. E bisogna farlo in fretta, per evitare che – giusto per rimanere al monito biblico – “le colpe dei padri ricadano sui figli”. La qualcosa, invero, in tema del combinato disposto lavoro-pensione, più che un rischio ormai è già una certezza. Nel senso, cioè, che se per un verso già oggi per molti è difficile, in particolare per i giovani – in stragrande maggioranza disoccupati o precari – domani sarà addirittura impossibile andarci in pensione. E non soltanto per gli effetti perversi della riforma Fornero.

Il rimedio – secondo molti – è quello di tornare ai criteri di flessibilità. L’alternativa, infatti, avverte il presidente dell’Inps Tito Boeri, con assonanza alla lost generation citata dal presidente Bce Mario Draghi, è drammatica: “Intere generazioni perdute”. Ma i buoni propositi s’infrangono sullo scoglio delle risorse: 5-7 miliardi che in cassa non ci sono. Per colpa dei padri, verrebbe da aggiungere. Ma tant’è. “Occorre uno sforzo creativo”, dicono ora dal governo. Magra consolazione.

E a complicare le cose c’è – nemmeno a ricordarlo – ancora una volta il dato sull’occupazione che è tornato negativo. I dati dell’Osservatorio sul precariato dell’Inps relativi al mese di febbraio sono un pugno nello stomaco: calano del 12% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno i nuovi contratti di lavoro, diminuiscono del 33% le attivazione di contratti di lavoro a tempo indeterminato, scendono del 3% le assunzioni con contratti di apprendistato, mentre quelle a tempo determinato restano sostanzialmente stabili. Le buone notizie sono solo sul fronte delle cessazioni dei rapporti di lavoro, che calano del 7% (quelle di contratti a tempo indeterminato restano sostanzialmente stabili). Il dato più preoccupante è quello relativo alle trasformazioni dei contratti in tempo indeterminato, che calano del 50%. Aumenta ancora il ricorso ai voucher: nel primo bimestre 2016 sono stati venduti 19,6 milioni di voucher destinati al pagamento delle prestazioni di lavoro accessorio, del valore nominale di 10 euro, con un incremento, rispetto al primo bimestre 2015, pari al + 45%. Per farla breve, l’effetto Jobs Act sembrerebbe già finito.

Né incoraggiano le previsioni economiche delle principali centrali di osservazioni. L’occupazione nell’area Ocse torna a rivedere il livello pre-crisi e l’Italia – pur migliorando – stagna pur sempre sul fondo della graduatoria dell’Organizzazione parigina.

In questo quadro, la Banca centrale europea ha deciso di mantenere invariato il tasso di interesse di riferimento a zero, il minimo storico. Decisioni ampiamente attese dai mercati, difficile peraltro pensare ad altro. Né cambia l’insofferenza della Germania nei confronti di Mario Draghi, che anzi è diventata ormai manifesta. Supermario, tuttavia, continua per la sua strada e confermato la disponibilità a nuove manovre, se necessario. Non è molto. Ma neanche poco, visto i tempi che corrono.