Ue, accordo Patto stabilità, l’Europarlamento ha ingoiato tutto

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Bruxelles, 10 feb. (askanews) – L’accordo in “trilogo” della notte scorsa a Bruxelles, tra i negoziatori del Parlamento europeo, della presidenza di turno del Consiglio Ue e della Commissione sul nuovo Patto di stabilità per i conti pubblici degli Stati membri non cambia molto rispetto al testo della posizione negoziale del Consiglio, fortemente influenzata dalle esigenze del ritorno alle politiche di austerità perorate dalla Germania e dagli altri paesi “frugali”.

Resta dominante la priorità assegnata alla stabilità finanziaria, con poche concessioni (tutte da verificare) alle politiche di crescita e di incentivo degli investimenti, di cui pure ci sarebbe un grande bisogno per finanziare la doppia transizione (trasformazione digitale e Green Deal), nonché la politica industriale necessaria a questo fine e allo sviluppo di una difesa comune, resa sempre più urgente dagli sviluppi geopolitici in corso. E questo mentre gli altri due competitori globali dell’Ue, Usa e Cina, continuano a mettere la forza finanziaria dello Stato al servizio della loro potenza economica.

Non è ancora noto il testo completo dell’accordo, ma è già chiaro che il Parlamento europeo ha ceduto sull’unico punto importante su cui il negoziato con il Consiglio Ue avrebbe potuto portare a un miglioramento davvero sostanziale: la “clausola di resilienza” per i deficit pubblici, che obbligherà gli Stati membri con il debito/Pil oltre il 60% a ridurre il proprio disavanzo strutturale fino all’1,5% del Pil. Questo, invece di applicare semplicemente la soglia di Maastricht del deficit/Pil al 3%.

Questo punto non era stato sostenuto nella posizione negoziale del Parlamento europeo, che invece rispetto all’altra clausola introdotta dai paesi “frugali”, quella di sostenibilità del debito, aveva fatto semplicemente un copia-incolla del testo del Consiglio.

La proposta originaria della Commissione, dell’aprile 2023, era incentrata su due pilastri principali, riguardanti i percorsi di aggiustamento di bilancio per i paesi che non rispettano le due soglie previste dal Trattato di Maastricht: il 60% per il debito/Pil e il 3% per il deficit/Pil. Nel primo caso, quello del debito eccessivo, veniva indicato un percorso di aggiustamento ‘su misura’, individualizzato per ciascuno Stato membro, con tempi più lunghi e più realistici per le correzioni: quattro anni, con la possibilità di proroga a sette anni per ammortizzare i costi delle riforme e degli investimenti raccomandati dall’Ue (transizione verde e digitale, innovazione, difesa).

Secondo la proposta della Commissione, il percorso di aggiustamento (“traiettoria tecnica”), viene determinato tenendo conto di un’analisi caso per caso della sostenibilità del debito, e originariamente si basava su un “singolo indicatore operativo”, basato sulla “spesa primaria netta”, quella cioè che non prende in considerazione la spesa per gli interessi, la parte controciclica degli stabilizzatori automatici (come i sussidi di disoccupazione o la cassa integrazione in tempi di crisi), le spese che non dipendono dai governi, e la spesa nei programmi e progetti comunitari che sono co-finanziati dagli Stati membri.

Il meccanismo proposto prevedeva semplicemente di tenere sotto stretto controllo, con un limite annuale collegato alla crescita economica, l’andamento della spesa primaria netta del paese interessato, senza definire una riduzione quantitativa annuale del debito/Pil uguale per tutti i casi, ma tale da assicurare che, alla fine del periodo previsto dal piano di aggiustamento, il livello del debito pubblico in quello Stato membro fosse inferiore a quello iniziale, e avviato su un percorso stabile di riduzione.

Era previsto un controllo della Commissione sui percorsi di aggiustamento, a scadenza semestrale, per individuare e correggere eventuali deviazioni significative.

La proposta originaria della Commissione aveva un solo coefficiente numerico: semplicemente, per i paesi con un rapporto deficit/Pil oltre il 3%, veniva previsto aggiustamento strutturale minimo annuale di bilancio pari allo 0,5% del Pil, per ridurre il disavanzo, fino al raggiungimento della soglia del 3%.

Molto diversa, più complicata e più rigida, è invece la posizione negoziale a cui sono giunti gli Stati membri in Consiglio Ue, dove la Germania, con l’appoggio dei paesi nordici e dell’Olanda, e poca opposizione da parte della Francia (con la delusione dell’Italia e altri paesi che avevano sperato di meglio), ha ottenuto quello che voleva: l’inserimento di due “clausole di salvaguardia” con coefficienti numerici nel nuovo quadro di regole, una per “la sostenibilità del debito” e l’altra per la “resilienza del deficit”.

La prima salvaguardia (art.6 bis del regolamento sul “braccio preventivo”) prevede che i paesi con un debito/Pil superiore al 90% (come l’Italia) debbano ridurlo di almeno un punto percentuale all’anno, mentre quando il debito/Pil è superiore al 60% ma inferiore al 90% il ritmo di riduzione viene dimezzato, a 0,5 punti percentuali all’anno.

La seconda è la “salvaguardia di resilienza del deficit” (art.6 ter), menzionata sopra, che il Parlamento europeo ha accettato, a quanto pare senza fare troppa resistenza. D’altra parte, una delle due relatrici del Parlamento, Esther De Lange (Ppe), fa parte del partito popolare olandese, da sempre in prima linea tra i “frugali”.

La nota di stamattina del Parlamento europeo assegna comunque una grande importanza allo spazio che, secondo quanto viene raccontato, le nuove regole accorderebbero agli investimenti pubblici. “Le norme – si legge – obbligheranno specificamente gli Stati membri a garantire che i loro piani nazionali spieghino come verranno effettuati gli investimenti nelle aree prioritarie dell’Ue, quali transizione climatica e digitale, sicurezza energetica e difesa”.

“Gli investimenti già intrapresi in questi settori – continua la nota – dovranno essere presi in considerazione dalla Commissione quando redige la sua relazione sulle deviazioni di uno Stato membro dal suo percorso di spesa, dando così più spazio a quello Stato membro per argomentare la propria causa al fine di non essere sottoposto a una procedura per disavanzo eccessivo”.

“Inoltre, la spesa nazionale per il cofinanziamento dei programmi finanziati dall’Ue sarà esclusa dalla spesa del governo, creando maggiori incentivi agli investimenti”, conclude la nota, ricordando che “i primi piani nazionali dovranno essere presentati da ciascuno Stato membro entro il 20 settembre 2025”.

L’accordo, non ancora noto in tutto i dettagli, ha avuto relativamente pochi commenti durante la giornata di sabato. Molto critici gli europarlamentari del M5s, i primi, tra gli italiani, a reagire stamattina alla notizia. “I nuovi parametri di base” dell’accordo “spingeranno non solo l’Italia, ma l’intero Continente, in recessione perché ridurranno gli investimenti. Secondo alcune stime questi obiettivi peseranno sulla capacità di spesa del nostro Paese per 12-13 miliardi per sette anni”.

“Gli investimenti nelle aree prioritarie dell’Ue, e cioè la transizione climatica e digitale e la sicurezza energetica, non vengono scorporati, ma dovranno essere elencati nei piani che gli Stati membri manderanno a Bruxelles”, sottolinea infine la nota del M5s.

Ma il commento forse più duro è quello venuto dal co-presidente del gruppo dei Verdi europei, il belga Philippe Lamberts, che a una domanda di Askanews su che cosa abbia ottenuto l’Assemblea di Strasburgo nel negoziato con il Consiglio ha riposto: “Niente: il Parlamento europeo ha ingoiato tutto”.