Un caos diffuso e una flebile prospettiva

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di Vincenzo Olita

Iran, Libia, Afganistan, Yemen, Somalia, ONU, Nato, Europa, Vaticano, Sciiti, Sunniti, Informazione e si potrebbe continuare con altri Paesi, Istituzioni, Religioni e Classi dirigenti, ma anche così si comprende che il ragionamento che andiamo sviluppando attiene alle crisi di estese aree geopolitiche. Già, la geopolitica, espressione utilizzata spesso a sproposito, indica compiutamente il rapporto tra geografia, quindi occorre conoscere almeno i confini, e situazione e condizioni politiche che insistono su quell’area. Va da sé che se il primo elemento è immutabile, il secondo, per sua stessa definizione, è una variabile dipendente. L’appropriata conoscenza di entrambi consente analisi corrette e valutazioni strutturate al di là di storiche e romantiche affezioni e di coazioni a ripetere. Credere, ad esempio, che l’Italia possa avere peso e ruolo nella crisi libica significa non aver compreso gli avvenimenti in quell’area dell’ultimo decennio, le nostre omissioni ed assenze, anche militari, su quel terreno, pensando di poter svolgere un’influenza diplomatica caratterizzata da prediche ed inviti a buoni propositi. Il silenzio sulle crisi iraniane e libiche dei vertici Nato, dei suoi Paesi membri e dell’ONU certifica le profonde difficoltà di quest’ultima e il tramonto dell’Alleanza Atlantica che, perso il ruolo di contrapposizione al Patto di Varsavia, stenta a rimodellare la sua missione. Nello stesso tempo appelli ed invocazioni all’Europa affinché “parli con una sola voce”, senza definire per dire cosa e quali posizioni sostenere sui vari teatri conflittuali, paradossalmente, rafforza la certificazione di uno stallo depressivo, frutto di divaricazioni strategiche tra i ventisette e un elevato tasso di nanismo politico della Commissione.
Lo stato di tensione permanente tra i tre grandi imperi – USA, Russia e Cina; le turbolenze, un tempo classificate come regionali, innescate da potenze di secondo e terzo livello; la sanguinosa dicotomia nel mondo islamico; l’inefficacia delle grandi istituzioni/organizzazioni internazionali; la decadenza, in occidente, delle Chiese cristiane, ed in particolare di quella cattolica, che non assolvono più neppure ruolo e funzione di autorità morale; l’evidenza, come non mai nella sua storia, dell’equivoca funzione dell’informazione, che si caratterizza sempre più come sottoprodotto di riferimento delle parti politiche, determinano nelle genti occidentali uno stato di insicurezza, di incertezza e di anomia che influenza la visione prospettica del domani.
Se a questo scenario sommiamo gli affanni per l’economia, per il lavoro e per la pochezza della classe dirigente europea, pena un penoso tramonto, s’impone di ridisegnare il futuro. Agli abitanti di questo continente storia e modelli su cui riflettere non mancano, l’Europa è stata la nostra storia, l’Europa potrà essere la nostra Utopia, il nostro futuro. L’abbiamo già conosciuta un’Europa con pochi confini, con un autorevole potere centrale, con una grande attenzione alla cultura con i monasteri e le abbazie cluniacensi, profondamente cristiana e nel contempo progenitrice delle libertà rinascimentali. Un’Europa con una visione e un’anima che tengano al centro la persona e le libertà individuali, i diritti umani, la libertà economica, in sintesi un liberalismo europeo in cui la sfera della politica abbia la sua nobile supremazia. Questa l’Europa da costruire, purtroppo la presidente Ursula von der Leyen, i commissari Borrell e Gentiloni non ne saranno i costruttori, quindi il nostro ragionamento è meno, molto meno, che flebile.