Un’autonomia differenziata oppure virtuosa?

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di Mariano D’Antonio

Regioni, Città metropolitane, Comuni, insomma le Autonomie locali, in questi giorni affilano le armi per combattere la battaglia della cosiddetta autonomia differenziata, la battaglia su quali materie, sostituendosi allo Stato, gli Enti locali avranno maggior potere di governo (ad esempio nell’istruzione, nella sanità, nel lavoro) e quanti finanziamenti per tali materie potranno ottenere e gestire. L’aggettivo “differenziata” che segue il sostantivo “autonomia” dice che alcuni Enti locali sono già preparati ad impadronirsi dei nuovi poteri ampliando il perimetro delle loro competenze e ricevendo dallo Stato i soldi necessari, mentre altri Enti locali non sono ancora pronti e annaspano nel vuoto cercando di orientarsi nella giungla dei poteri istituzionali. Gli Enti che sono già sul sentiero di guerra, sono per lo più quelli del Nord d’Italia, mentre Regioni, Città metropolitane e Comuni del Mezzogiorno finora sono stati per mesi a guardare e soltanto di recente qualcuno tra loro (ad esempio la Regione Campania) sta dando segnali d’interesse per l’autonomia differenziata.
Gli Enti, le Autonomie locali, che sono preparati, agguerriti e scaldano i muscoli ai blocchi di partenza, sono tre Regioni del Nord: la Lombardia, il Veneto e l’Emilia Romagna. Lombardia e Veneto hanno organizzato e portato a buon fine un referendum consultivo, chiamando nell’ottobre 2017 i cittadini ad esprimersi sull’ampliamento dei poteri locali in materie come lavoro, istruzione, salute, definite dall’articolo 117 della nostra Costituzione “materie di legislazione concorrente” tra Stato e Regioni. I due referendum consultivi della Lombardia e del Veneto hanno ricevuto nelle urne la maggioranza di Sì.
La Regione Emilia-Romagna a sua volta, invece di ricorrere a un referendum, ha approvato una delibera e poi ha espresso in Assemblea un atto di indirizzo che conferiva al presidente il mandato di avviare una trattativa col governo della Repubblica per ampliare i poteri regionali nelle materie di legislazione concorrente.
Le tre Regioni del Nord (Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna) protagoniste dell’autonomia differenziata poggiano le loro pretese su un punto di forza, sul cosiddetto residuo fiscale (RF), che per il Nord è una grandezza positiva. Il RF è la somma algebrica degli introiti fiscali incassati dallo Stato e dalle altre amministrazioni pubbliche operanti sul territorio (somma con segno positivo) e le spese effettuate dal settore pubblico sul territorio (somma con segno negativo). Ad esempio il RF della Lombardia è una cifra stimata di almeno 40 miliardi di euro all’anno, mentre per il Veneto è di 15 miliardi e per l’Emilia Romagna è di 18 miliardi. Per tutte le Regioni del Mezzogiorno invece il residuo fiscale è negativo: per la Campania è di oltre – 5 miliardi di euro, per la Puglia di oltre – 6 miliardi, per la Sicilia di – 10 miliardi.
Queste cifre non debbono stupire: nel Sud gli introiti dello Stato sono sistematicamente inferiori alle spese pubbliche perchè il reddito dei cittadini meridionali è inferiore a quello dei settentrionali (e le tasse si pagano sul reddito), mentre le spese pubbliche nel Mezzogiorno non possono essere ridotte oltre misura se i bisogni della popolazione vanno minimamente soddisfatti.
La tentazione che prende i cittadini del Nord ovvero i loro rappresentanti politici della Lega, è di attuare l’autonomia differenziata riducendo il residuo fiscale delle Regioni settentrionali, cioè trasferendo una parte degli introiti dallo Stato alle Regioni del Nord per consentire a queste Regioni di spendere di più nell’istruzione, nella sanità, nel lavoro.
Queste decisioni se attuate darebbero un colpo all’unità politica dell’Italia, alla convivenza e alla collaborazione tra il Nord e il Sud. Si può evitare questo pericolo sociale e istituzionale?
Il primo passo da muovere, sarebbe di spostare l’attenzione e l’iniziativa politica dalle cifre dei residui fiscali alle risorse che in ogni territorio amministrativo (Regioni, Città metropolitane, Comuni) sono necessarie per assicurare la soddisfazione dei bisogni sociali. Insomma non bisogna accettare l’idea che una Regione, poniamo la Lombardia, che presenta un residuo fiscale positivo, sia libera di spendere in parte o in tutto gli introiti riscossi dallo Stato, ad esempio, pagando di più gli addetti alla sanità locale; mentre un’altra Regione, mettiamo la Campania, che registra un residuo fiscale negativo, dovrebbe ridurre la spesa pubblica nella scuola per migliorare il suo residuo fiscale.
Dai residui fiscali insomma occorre passare ai fabbisogni standard, cioè occorre stabilire quanto è necessario ai cittadini perchè i loro figli godano di servizi scolastici essenziali, perchè sia tutelata la salute con servizi sanitari appropriati, perchè i giovani in età di lavoro siano preparati e avviati ad un’occupazione adeguata. E i fabbisogni standard dovranno essere definiti e tradotti in euro per gli italiani in maniera tendenzialmente uniforme, cioè indipendentemente dal territorio in cui vivono.
Insomma dobbiamo occuparci in primo luogo della spesa pubblica socialmente rilevante. Dobbiamo rafforzare le autonomie locali, Regioni e Comuni in prima fila, per porli in condizione di soddisfare le domande di servizi essenziali alla collettività.
Mettiamo perciò da parte lo slogan dell’autonomia differenziata, un concetto che richiama il pericolo di approfondire ancor più la distanza tra chi ha e chi non ha, tra italiani ricchi e italiani poveri.
Issiamo invece la bandiera dell’autonomia virtuosa nella quale l’amministrazione pubblica è gestita soddisfacendo in ogni territorio i bisogni essenziali dei cittadini e il mercato lascia spazio all’inventiva, alla laboriosità, alle tradizioni locali, che faranno poi la differenza tra le comunità dei diversi territori.