Uno schiaffo in faccia di antica origine e scarso riferimento diplomatico

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In foto Christian Masset, ambasciatore di Francia in Italia

La parabola di Cesare Battisti e i retroscena della cattura degli ex terroristi italiani riparati a Parigi. All’alba del 28 aprile 2021, la magistratura francese dà corso alle richieste di estradizione della magistratura italiana – di fatto rimaste lettera morta per oltre trent’anni – nei confronti di ex appartenenti alle sigle del terrorismo rosso italiano condannati in via definitiva a pene detentive. A Parigi, vengono per questo arrestati Enzo Calvitti, Giovanni Alimonti, Roberta Cappelli, Marina Petrella e Sergio Tornaghi (tutti ex militanti della Brigate Rosse), Giorgio Pietrostefani, ex di Lotta Continua condannato come mandante dell’omicidio Calabresi, e Narciso Manenti, dei Nuclei Armati contro il Potere Territoriale. Ventiquattro ore dopo, si costituiscono Luigi Bergamin, ex esponente dei Proletari Armati per il Comunismo, e Raffaele Ventura, ex militante delle Formazioni Combattenti Comuniste. Nei giorni successivi, tutti i fermati verranno rilasciati e avrà inizio presso la “Chambre d’instruction”, la sezione della Corte d’appello competente sulle domande di estradizione, una battaglia giudiziaria che si annuncia complessa e il cui esito definitivo è facile prevedere non arriverà prima di anni. In realtà solo oggi i rotocalchi dettano lo schiaffo ricevuto dalla Francia che dovrebbe portare almeno al richiamo dell’Ambasciatore Christian Masset in Italia: nesssuna estradizione dopo tanto dire e tanto fare.

Battezzata “Ombre rosse”, l’operazione decretava la fine della dottrina Mitterrand, chiudendo solo in apparenza una ferita aperta tra Italia e Francia. L’epilogo parigino è figlio di un percorso politico-diplomatico tortuoso: dalla resa di Cesare Battisti, l’ex militante dei Proletari armati per il comunismo, “l’innocente” che si sapeva colpevole, simbolo beffardo e irridente dell’inganno consumato, per quattro lustri, ai danni delle sue vittime e dei Paesi in cui aveva trovato asilo come “perseguitato politico”: la Francia, prima, il Brasile di Lula, poi.

Cesare Battisti rinnegava, una volta e per sempre la lotta armata: dalle rapine ai Proletari Armati per il Comunismo. Dal carcere di Frosinone all’accogliente comunità di rifugiati a Parigi. E poi al Messico e al Brasile, fino a quel pomeriggio boliviano in cui la sua latitanza terminò. Già, Battisti, insieme al suo legale Davide Steccanella, ci aveva pensato per due mesi. In quel primo pomeriggio del 23 marzo 2019, nel parlatorio del “Soro”, alla periferia di Oristano, il racconto della sua traiettoria da clandestino in armi aveva avuto un improvviso inciso. Battisti si era preso una pausa. Poi, d’un fiato: “Faccio presente che ho avuto la possibilità di leggere le sentenze emesse nei miei confronti da quando sono detenuto qui a Massama ed in via di sintesi posso dire che i fatti che mi riguardano ricostruiti nelle sentenze stesse ed i nominativi dei responsabili corrispondono al vero”. Lo volle ribadire, parlando dell’esecuzione di Antonio Santoro, maresciallo al carcere di Udine, freddato a quattro settimane dal ritrovamento del cadavere di Aldo Moro in via Fani: “Confermo che la ricostruzione della sentenza è esatta”. Il muro era caduto. Due volte.

Lo Stato che lo aveva condannato era uno Stato giusto. “Così lo vidi – ribadisce oggi Alberto Nobili, procuratore aggiunto dell’Antiterrorismo milanese, il magistrato che raccolse le sue ammissioni – e mi colpì il fatto che  mi disse che aveva contribuito a uccidere il Sessantotto, forse perché il sessantotto era un momento ben più nobile di una pessima lotta armata, ma le istituzioni seppero trasformare una protesta giusta in un confronto bieco tra fazioni, ove l’arma in pugno faceva la differenza.  In quei cortei sessantottini si chiedeva la fine del Vietnam, la riforma della scuola e dell’università, la riforma del lavoro e della giustizia. Poi arrivarono questi incappucciati con le pistole, che quei cortei fecero degenerare. Erano compagni con le P38. Come testimoniò Battisti: “La lotta armata è stata un movimento disastroso che ha stroncato una rivoluzione culturale e sociale che aveva preso avvio nel 1968 con prospettive sicuramente positive per il Paese ma che proprio la lotta armata contribuì a stroncare. Chiedo scusa pur non potendo rinnegare che in quell’epoca per me e per tutti gli altri che aderirono alla lotta armata si trattava di una guerra giusta”. Allora. Fino agli omicidi. “Parlare oggi di lotta armata per me è qualcosa privo di senso”.

Per questa ed altre infinite cose non ci dobbiamo meravigliare di fronte a notizie come quelle del rifiuto dell’estradizione di questi terroristi da parte francese. Sono collegate direttamentre all’operato delle istituzioni italiane che ancora molto avrebbero da dire su quegli anni e, forse, proprio per questo, il richiamo di un Ambasciatore sarebbe un fatto puramente inutile.