Una voce, un pianoforte e un narratore. Così Riccardo Canessa avvicina anche gli scettici alla lirica

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in foto Riccardo Canessa, regista

Una voce, un pianoforte e un narratore. Riccardo Canessa con la sua formula “Opera Talk Show” illumina la via per avvicinare all’Opera Lirica quelli che in genere non le dedicano più dello stretto necessario per escluderla da propri programmi. Un Impresona. Una scommessa difficilissima. Il teatro è pieno di un pubblico molto curioso e poco consapevole di ciò a cui assisterà. Certo si tratta della Turandot, l’opera di Puccini. Fuori dagli schemi la rappresentazione di Canessa in un teatro che in genere non offre opere di questo tipo. Pubblico inizialmente titubante, curioso, a tratti scettico. E poi è spettacolo. Un pianoforte con pianista, il regista, proprio lui quello degli spettacoli al Teatro San Carlo, e dopo qualche minuto una cantante. Ovviamente un asso della lirica. Una scena per tre. Facilissimo cadere nel cliché: io racconto, il pianista suona, la cantante canta. Facciamo ascoltare le arie più famose dell’opera. Puccini conquista sempre il suo pubblico, e tutti a casa. Invece no, pochi minuti e grazie alla narrazione scompaiono gli artisti in scena e lo spettatore vede materializzarsi un paesaggio orientale, un trono, una principessa, un coro di bambini e via via tanti personaggi. Lo sfondo è sempre quello, nero, in scena solo un pianoforte. Tutti i presenti però sono nell’antica Cina. La voce narrante è uno sfondo, un filo che tira lo spettatore all’interno di un mondo antico e lontano. Il linguaggio è semplice, contemporaneo a tratti personale. Racconta in modo semplice cose difficilissime che i musicisti studiano per anni, le caratteristiche della musica, le sue pause, tutto. Interpretazione. Qualcuno ricorda la parola? Applicata all’Opera Lirica. Ogni spettatore veste i panni di Turandot e si sente bizzosissimo e infelice, poi si trasforma in Liù per essere eroe fino in fondo, e sente di potersi comportare da Cafar nei momenti delle scelte più difficili. Ammettiamolo non è da tutti. Tutti i tasti delle emozioni sono abilmente sollecitati da una narrazione dove ogni gesto ed ogni tono di voce comunicano empatia e coinvolgimento. Il pubblico è invitato a cantare con la professionista e dapprima titubante e scettico al secondo tentativo s’impegna e diventa davvero il coro che fa da sfondo alla protagonista. Perfetto. Una ennesima dimostrazione del potere infinito dell’interpretazione. Quel pubblico d’antan che affolla le poltrone ed i palchi per le rappresentazioni d’opera lirica, cede il posto anche ai ventenni che sono giunti con l’auricolare rimbombante di musica d’ogni tipo, imbronciati e con l’aria dell’agnello sull’altare del sacrificio. L’auricolare è spinto nelle tasche e lo sguardo resta fisso alla scena dove su quello sfondo nero la voce narrante dipinge il castello, la figura efebica del principe di Persia e il pubblico delle tremende esecuzioni ordinate da Turandot. Il regista narratore veste i panni che una guida dovrebbe saper vestire nel museo. La trama di Turandot è rintracciabile dovunque la si voglia cercare, come le immagini tratte dalle più grandi rappresentazioni, you tube è pieno di stralci d’opera, ma quando il linguaggio di un narratore segue le regole dell’interpretazione non c’è partita. Ecco perché gli aneddoti non piovono a caso e non sono il diversivo per riaccendere l’interesse per un monologo perfino un po’ noioso. Ogni corda della sensibilità è toccata con delicatezza ed ironia. E se una narrazione di questo tipo fosse applicata ad una mostra, da quella su Mohammed Ali a Canova passando per qualche oscuro autore di belle speranze? Pensate a quelle piccole case inglesi nelle quali ebbe la fortuna di Dormire qualche illustre generale dell’esercito britannico. Come potrebbero sperare di raccogliere un pubblico mediamente interessato se le visite non fossero organizzate secondo le regole dell’interpretazione?