L’importanza dell’industria nel riformare l’Europa

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Le Confindustrie italiana francese e tedesca (Medef e Bdi le ultime due) si sono di recente incontrate a Parigi per un incontro trilaterale che affonda le radici nel dicembre 2019, pochi mesi prima del dilagare della pandemia, quando per la prima volta le tre organizzazioni imprenditoriali hanno deciso di dialogare insieme aggiungendo questo appuntamento annuale ai confronti bilaterali, due alla volta, che ci sono sempre stati.
L’iniziativa appare particolarmente interessante dal momento che Italia Francia e Germania sono le principali manifatture d’Europa ed esprimono una carica rappresentativa molto forte soprattutto dopo il ritiro della Gran Bretagna dall’Unione. Per l’Italia, in particolare, si apre la prospettiva di diventare ago della bilancia tra le due principali potenze del continente replicando nel campo dell’economia lo stesso schema che si presenta in politica.
Il momento è topico. Le sfide da affrontare non sono mai state così pressanti e grandiose. All’indomani del G20 italiano e della Cop 26 di Glasgow si vanno chiarendo molti punti della trasformazione che le comunità, e il settore industriale in particolare, devono realizzare se vogliono tener fede agli impegni assunti per tenere sotto controllo l’aumento della temperatura nel pianeta ed evitare che la Terra vada incontro ai disastri annunciati.
La voce delle imprese è decisiva perché dalla loro capacità di cambiare dipende in gran parte la riuscita o meno della scommessa del secolo. Per natura e vocazione lontane da ideologie facilone, le istituzioni preposte alla produzione della ricchezza e alla formazione di posti di lavoro non possono concedersi il lusso di sognare a occhi aperti un mondo bello e impossibile come certe dichiarazioni di principio lasciano intendere.
La sostenibilità che tutti invocano dev’essere concepita a tutto tondo: ambientale, certo, ma senza provocare danni irreversibili all’economia e alla società affidandosi a soluzioni attraenti sulla carta ma impossibili da raggiungere nella pratica. Si tratta, com’è evidente, di tentare la quadratura del cerchio. E per questo occorrono dosi crescenti di consapevolezza e responsabilità tracciando strade percorribili e dall’esito possibile.
L’obiettivo di eliminare le emissioni di carbonio entro il 2050 – già contestato da India e Cina che chiedono più tempo per adeguarsi – è strategico e difficile da conseguire allo stesso tempo. Ed è alla fine di un sentiero davvero stretto se per riuscirci occorre introdurre nuove tecnologie e nuovi comportamenti senza intaccare le capacità produttive e anzi trovando il modo di migliorarle a beneficio del maggior numero possibile di persone.
Tutto questo tenendo conto che l’Europa tutta incide sul fenomeno da debellare per il 9 per cento appena del contesto globale e che dunque il suo impegno più che fine a se stesso dev’essere da esempio e monito per quei Paesi che maggiormente inquinano e difendono il diritto a farlo perché di più recente industrializzazione. Mettere d’accordo tanti attori con situazioni di partenza così diverse non è assolutamente facile e, soprattutto, per niente scontato.
Una cosa sono infatti le dichiarazioni d’intenti, un’altra le applicazioni pratiche. Il desiderio di far pagare ad altri i maggiori costi dell’aggiustamento è molto alto e l’esperienza insegna che la slealtà post contrattuale – la disposizione a negare coi fatti quel che si dice a parole – è sempre stata una costante nei rapporti internazionali. In mancanza di un poliziotto planetario bisogna affidarsi alla buona volontà di tutti i partecipanti al patto.