La grande Guerra vista da Giuseppe Leone

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Buonalbergo: sabato 17 Novembre, nella cappella del Palazzo Angelini, oggi palazzetto delle Arti FortoreSannio, alle ore 18, il parroco Don Pino Mottola celebrerà in occasione del centenario della grande guerra una messa in suffraggio dei caduti. La Grande Guerra ce la ricordiamo tutti in bianco e nero. Più che ricordarla la immaginiamo, supportando gli spazi vuoti con quanto arriva da vecchi filmati, immagini, giornali, scritti, lettere, annotazioni. Insomma tutto ciò che è storia. Un storia in bianco e nero, appunto. Di quel monocromo che c’è la fa figurare lontanissima, del resto lo scorso 4 novembre se ne è commemorato il centenario. Tanto lontana da chiedersi che cosa avevano in comune gli uomini di oggi, degli inizi degli anni duemila, i così detti Millennials, con gli uomini di 100 anni fa, quelli che erano nati con il nascere del secolo breve e che si sono visti scaraventare, giovani o giovanissimi, al fronte. Innanzi tutto la giovinezza. Soprattutto questo, la giovinezza hanno in comune. O forse è qualcosa in più. Se a quelle facce in bianco e nero provassimo a dare una consistenza, il brivido vitale, un calore emotivo, forse le sentiremmo più vicine. Forse “rimembrare” significa immaginare quegli uomini, poco più che ragazzi, scrivere ai loro cari a casa, mangiare le loro razioni, sentire la loro paura. Chiedersi cosa erano prima di indossare l’uniforme, cosa desideravano, chi amavano, per cosa ridevano, a cosa pensavano prima di dormire. Capiremmo, forse, che non erano tanto diversi dagli uomini, poco più che ragazzi, di adesso.
E’ questo che prova a fare Giuseppe Leone con Elmetto di Latta. Non è la prima volta del resto che si cimenta con temi universali, anzi. Leone è artista e al contempo cronista, affetta il mondo traducendolo in fatti. Ed innanzitutto è vate, nel senso che fa da sentinella ad un comune sentire. E’ dalla comunione tra un racconto cronistico e da quello sguardo tutto interno di un scandagliamento emotivo delle cose umane che affiorano prodotti artistici fedeli alla fisica degli eventi quanto a orizzonti caldissimi e ipersensibili. Quest’opera, ad esempio, può essere strutturalmente letta in una triplice chiave. Come una scultura, per la coordinazione degli elementi plastici tra loro all’interno della cornice-scatola. Come un’installazione, se si vuole cedere all’incasellamento che ne farebbe il sistema arte. Come un dipinto, se si va a schiacciare la prospettiva frontalmente tanto da addensarne le componenti, ma senza mai affaticarle, senza affievolirne la godibilità estetica. La natura una e trina dell’opera sembra giocare con i suoi significati, sia che si parli del singolo oggetto, sia che se ne prenda in discussione l’insieme. Il rompicapo che l’artista propone a priori,ovvero l’identificabilità del prodotto all’interno di una delle arti figurativeche viene prima dell’interpretazione simbolica, è assai interessante. Gli elementi (o objecttrouvé) scelti da Leone possono sembrare ad un primo sguardo assai canonici rispetto al tema della guerra, se non fosse che trovano la loro profondità, originalità e quasidirompenza, tanto nella peculiarità che l’artista gli assegna arbitrariamente, tanto nel modo in cui poi si incastrano tra loro. Uno su tutti l’elmetto di latta, che come sineddoche, è metafora prediletta del soldato. Nel caso della Grande Guerra del milite ignoto. Ignota l’identità dell’uomo caduto, del corpo seppellito in trincea dai colpi di mortaio, della divisa su cui germogliano papaveri. Il conflitto del ’15-’18 sarà per molti versi ricordato per questo, per non aver saputo dare nome e cognome ai tanti che non hanno fatto ritorno a casa. Nel gergo militare statunitense il Marine è un jarhead, una testa di barattolo. Un po’ perché deve eseguire gli ordini senza poter esercitare il proprio arbitrio, un po’ perché la sua testa “in lattina”, è un bersaglio esposto ai colpi del nemico, un tiro a segno. Non è una visone tanto lontana di quella dell’elmetto di latta proposta da Leone (le guerre non sono del resto tutte diverse e tutte uguali?). Eppure. Qui arriva lo smacco dell’artista. Leone non sceglie un elmetto qualunque. Sceglie un elmetto su cui si è depositata una traccia ematica del soldato caduto. Un frammento di DNA, un’identità. La eco di una persona che camminava, mangiava, respirava, rideva. Il soldato di Leone non è un milite ignoto. E’ noto. E’ memoria. Ricordare quel soldato significa allora ricordare tutti i soldati, dare un nome a ciascuno, riscoprire il senso della “rimembranza”. L’opera diventa quindi un manifesto, proprio nei termini di res manifesta e comprensibile. Il filo spinato, la mano bianca in atto di resa, il legno tinto di sangue, l’elmo bistrattato smettono di essere semplicemente oggetti, ma assumono la stessa dilatazione che ha una parola su un manifesto. Piccolo contenitore (o segno) che si amplifica nel significato. E così un’opera comprime nelle sue dimensioni, consone ad una fruibilità confortevole, l’immensa carica drammatica di un intero conflitto, di un’intera epoca, di un’intera “Generazione perduta”, dove è la stessa Vera Brittain, testimone diretta del primo conflitto e depositaria della sua memoria, a scrivere: “Forse, dopotutto, la cosa migliore che noi sopravvissuti potevamo fare era non dimenticare, trasmettere ai nostri successori ciò che avevamo vissuto (…). Se solo la grandiosità che noi abbiamo volto alla guerra potesse essere impiegato per cercare la pace, allora davvero il futuro potrebbe vedere la redenzione dell’uomo”. Giuseppe Leone si muove sulla sua stessa falsariga, sostituendo alla puntuale narrazione di un romanzo biografico, la forza diretta del codice visivo. Eppure conserva proprio del romanzo, la sua carica implosiva più che esplosiva. Elmetto di latta è infatti nella sua incisività e tangibilità un’opera densissima che trascina a sé. Solo una volta interpretati i suoi significati spingono altrove, indietro nel tempo per diventare testimoni emotivi di una giovinezza perduta cent’anni fa e che i ragazzi di oggi hanno il compito di ricordare, vivere, commemorare. Ed è quindi sul cadere del centenario della Prima Guerra Mondiale che ancora una volta a parlare è l’arte. Non dimenticate, perpetuate la pace, sembra dire agli uomini.