Esplosiva Kazuko, con l’interpretazione sarebbe irresistibile

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in foto Kazuko Miyamoto

Metti un artista nata in Giappone, che vive e lavora a New York cavalcandone tutta l’effervescenza intellettuale.
Metti che questa sua radice resti, nelle sue opere, sempre ben in evidenza anche nella fusione con altri linguaggi artistici.
Metti che la collaborazione di quest’artista, una donna, con Sol LeWitt alla fine dei mitici anni ’60 abbia determinato il suo incontro con l’alfabeto minimalista americano e che lei stessa lo abbia riscritto al femminile, lo abbia scomposto e poi, ciao ciao, sia andata oltre.
Ecco a noi l’arte di Kazuko Miyamoto, in esposizione al Museo Madre. Nove sale per far compiere al visitatore lo tesso salto concettuale fatto dall’artista, portandolo a vivere l’abbandono del rigore geometrico minimalista, troppo maschile per la vitalità di una donna, a favore di forme arrotondate, irregolari e l’uso di materiali precari, non ordinari. Nove sale allestite secondo un ordine cronologico al secondo piano del Museo, e con un principio totalmente diverso appena un piano più su. Al terzo piano l’intento è il confronto tra le sue strings constructions degli anni 70 e la produzione degli anni duemila. Ogni tanto uno schermo, forse un venti pollici, un televisore domestico, mostra un video con una sua performance. Kazuko balla, si muove, si flette , flessuosa come un giunco, riprendendo il forte legame con i luoghi delle sue origini. I tempi delle sue movenze sono scanditi, come da tradizione giapponese, da una musica che, su scala pentafonica, dà molta importanza alle componenti rumoristiche. E’ dunque fondamentale per l’espressione dell’artista. Una sua scelta. Eppure, come un fastidioso ronzio di sottofondo, la musica che accompagna le movenze dell’artista non è percepita dal visitatore. Dopo uno sguardo distratto ai video prosegue alla ricerca di qualche punto d’interesse per lui più percepibile. Il presentatore gaffeur di un tempo che fu avrebbe esclamato il fatidico “AhiAhiAhisignoraaaaa” quale commento desolato ad una cattiva performance del suo concorrente. Se l’artista ha scelto di mostrarsi in una esibizione sottolineata dalla musica, forse proprio per ricalcare il legame con le sue origini, il valore del gesto e il rapporto tra corpo ed architettura , allora le percussioni e i flauti non devono essere solo percepiti in un pallido sottofondo, ma uditi forti e chiari con i loro tempi e le scansioni di quel linguaggio musicale. Il ritmo delle costruzioni di spago e chiodi talvolta s’interrompe con qualche irregolarità, ma il visitatore difficilmente riesce a coglierne il fascino. Una proiezione, un video, del montaggio di queste opere avrebbe incatenato l’osservatore, che si sarebbe sentito coinvolto dal difficile lavoro ed avrebbe colto le irregolarità del tessuto in costruzione. Meno opere, magari, ma meglio offerte al pubblico. C’è un bel passeggio di fruitori in quelle nove sale. E’ solo un passeggio però. Il pubblico non è conquistato. Un artista dal carattere espressivo così forte, che non punta alla produzione dell’oggetto duraturo, quello che puoi collezionare o esporre nel salotto buono, ha bisogno di un esposizione che coinvolga tutti i sensi, che si faccia ricordare per sempre. E allora luci e suoni. La strada da percorrere è indicata dall’artista stessa. Non può essere ignorata a favore di modi espositivi non consoni a ciò che invece si proclama sulle pubblicazioni esplicative. Strings, Mesmeriche, Slittamenti performantici: ce n’è per tutti, ma non tutti riescono a emozionarsi. Prossimo giro, prossima corsa. Avanti tutta nel segno dell’interpretazione.