Classicità seriale e (un po’) partenopea. Così Prada fa bene alla cultura

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“A che cosa serve un’istituzione culturale?” Questa la domanda da cui prende le mosse quella che si sta rivelando la più importante notizia del panorama artistico italiano di questa stagione, ben più dell’asfittica e vagamente cimiteriale compagine italiana alla Biennale: l’apertura della nuova sede Milanese della Fondazione Prada. Evento importantissimo perché, in una una fase di indiscutibile fermento per la città, restituisce alla comunità – non solo artistica – il bene di cui ha più bisogno, e che il settore pubblico da solo non riesce a fornire più ormai da tempo immemore: spazio di relazione, spazio di comunità in cui declinare il tema della polis, una spazio in cui alimentare intelligenze favorendo l’incontro, attraverso soluzioni architettoniche belle, e dalla qualità costruttiva inusitata, in cui far circolare e condividere idee, che, con le parole dei curatori: “Devono arricchire la nostra vita quotidiana, aiutarci a capire i cambiamenti che avvengono in noi e nel mondo. Sarà questa convinzione la base delle attività future della Fondazione.” La Fondazione ha scelto l’arte come principale strumento di lavoro e di apprendimento: un territorio di pensiero libero che accoglie sia figure consolidate e sia approcci emergenti, e che si pone l’obiettivo di utilizzare i pezzi presenti nella collezione Prada come veicolo attivo a disposizione dei più disparati percorsi espositivi: non opere da muesificare, ma materiali da far dialogare con lo spazio, come nel caso di “Trittico” uno dei format espositivi, che vede la continua rotazione secondo una soluzione di tre opere in tutto, una per tre grandi ambienti, dei materiali appartenenti alla collezione. Spazio rizomatico, autenticamente multidimensionale: costruito nel 1910 per ospitare una distilleria, il complesso è stato oggetto di una riconfigurazione architettonica che combina tre nuove strutture agli edifici preesistenti. Ne è nato un campus di spazi post-industriali e nuovi, con un’alternanza di apertura e intimità in cui i cortili offrono alla cittadinanza uno spazio pubblico comune. Uno spazio ricco e variegato che – su una superficie totale di 19.000 m2 – si pone come raro esempio di piazza contemporanea, nata dalla capacità visionaria dell’architetto Rem Koolhaas e del suo studio OMA, che spiega: “Il progetto della Fondazione Prada non è un’opera di conservazione e nemmeno l’ideazione di una nuova architettura. Queste due dimensioni coesistono, pur rimanendo distinte, e si confrontano reciprocamente in un processo di continua interazione, quasi fossero frammenti destinati a non formare mai un’immagine unica e definita, in cui un elemento prevale sugli altri. Vecchio e nuovo, orizzontale e verticale, ampio e stretto, bianco e nero, aperto e chiuso: questi contrasti stabiliscono la varietà di opposizioni che descrive la natura della nuova Fondazione. Introducendo numerose variabili spaziali, la complessità del progetto architettonico contribuisce allo sviluppo di una programmazione culturale aperta e in costante evoluzione, nella quale sia l’arte che l’architettura trarranno beneficio dalle loro reciproche sfide.” Serial Classic “partenopei” – L’offerta espositiva è ricchissima, disseminando negli spazi descritti da Khoolhaas numerosi interventi micro e macro. Tra questi, il più audace e coraggioso è paradossalmente l’unico che riguarda opere d’arte classica. “Serial Classic” co-curata da Salvatore Settis e Anna Anguissola, è dedicata alla scultura classica ed esplora il rapporto ambivalente tra originalità e imitazione nella cultura romana e il suo insistere sulla diffusione di multipli come omaggi all’arte greca. All’idea di classico tendiamo ad associare quella di unicità, ma in nessun periodo dell’arte occidentale la creazione di copie da grandi capolavori del passato è stata importante quanto nella Roma della tarda Repubblica e dell’Impero. Con le parole dello stesso Settis, anche i bronzi di Riace sarebbero “prodotti per dedicare molto più di due sole immagini, tutte prodotte in serie sulla base di uno stesso modello e con le stesse matrici, probabilmente in terracotta; “solo nel momento in cui ciascun modello venne rifinito in dettaglio, prima della fusione, le due figure devono avere acquisito caratteristiche a loro peculiari, pur mantenendo virtualmente misure e fattezze identiche”. Una prospettiva lontana dagli stereotipi del classicismo winkelmaniano e che, anche grazie ad un allestimento di qualità assoluta, ci mostra che l’arte anche quando è antica, se è in grado di comunicare, è sempre contemporanea, e piace sottolineare come almeno un terzo delle opere esposte siano di provenienza del Museo Archeologico nazionale di Napoli, metà di queste dai suoi archivi. Detto ciò, non sarà difficile notare da un veloce surfing sui social e sui magazine, come in realtà lo spazio più amato e condiviso, anche e soprattutto da chi non ha necessariamente dimestichezza con i linguaggi dell’arte, sia lo spazio comune per antonomasia, il bar. Progettato dal regista Wes Anderson, il Bar Luce ricrea l’atmosfera di un tipico caffè della vecchia Milano. Per il celebre regista, il bar: “è stato pensato per essere ‘vissuto’… Credo che sarebbe un ottimo set, ma anche un bellissimo posto per scrivere un film.” Osserveremo i futuri passi della Fondazione, ma, al momento, in un contesto di atavica incapacità manageriale all’interno delle istituzioni culturali italiane questo nuovo inizio rappresenta decisamente un buon segnale.