Giuseppe Leone: l’arte del viaggio

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PREMESSA – Il Grande Esodo (di Giuseppe Leone)
Quando l’arte diventa cronaca e la cronaca diventa arte
E’ già nel 2012 che nasce “Il Grande Esodo”, serie di opere che si genera dal tema drammatico del viaggio. Un viaggio che cos’è? E’ un modo di andare, lasciare, porre una distanza tra un punto di partenza e uno di arrivo. Ogni viaggio è una storia a sé, ha le sue motivazioni e i suoi drammi. E la barca, la barca in mezzo al mare, in balia di onde amiche o nemiche, é di solito compagna fedele o meno durante il viaggio. La tragedia dei “barconi”, i corpi riversati nel Mediterraneo, le fughe disperate, le proteste dei profughi, l’attenzione ritrovata dei media, diventano il concetto di fondo di una serie pittorica che si è già da prima nutrita di intuizioni. Già da anni avverto il sentimento di ciò che ogni guerra, anche la più piccola, provoca: squilibri a livello mondiale. Viviamo in un’ epoca in cui nulla rimane circoscritto, ma fa eco su una scala assai ampia. E’ come lanciare un sasso nel bel mezzo dello stagno. I cerchi che l’impatto disegna sull’ acqua si protraggono su tutta la superficie del lago e non solo lì dove il sasso è caduto. E’ così che vado sublimando i drammi ,che si consumano sulle mie tele attraverso una sintesi concettuale.

 

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Il viaggio è uno dei motivi primigeni e caratteristici dell’identità umana. Una dimensione, reale e immaginaria, che è connaturata al modo di essere di Sapiens. Giuseppe Leone, in questo ciclo interessante e suggestivo del suo viaggio di artista, ci propone una sua ermeneutica, assai complessa, sul terreno squisitamente concettuale e di grande seduzione, sul piano immediatamente estetico. Al centro della sua ricerca vi è “L’esodo”, una categoria che sopporta una memoria semantica spaventosa e sublime, un termine dalla valenza universale e diacronica, che ha un fondamentale valore generativo, in rapporto all’identità del mondo mediterraneo, e che assume un connotato, ancor più particolare, in relazione ai percorsi accidentati sui quali si sono costruite la storia e il carattere dell’Occidente. Ma la “lettura” del fenomeno, che Giuseppe Leone ci propone, non guarda semplicemente al mito, anche se questo è sempre sullo sfondo della sua ricerca. 

 

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L’artista volge il suo sguardo, anche e non marginalmente, ai significati che il viaggio assume nella declinazione contemporanea. La sua osservazione è attenta e partecipe. Egli prende di petto la questione, nella drammaticità con la quale essa si manifesta oggi, fra una cronaca che è già storia e una storia che non riesce a sottrarsi al cannibalismo della cronaca. Giuseppe Leone affronta il tema alla sua maniera, con gli strumenti, i codici e lo stile di quell’espressività artistica, sincera e violenta, che gli è propria. Eppure, il suo racconto si snoda attraverso momenti, intrisi, in ogni punto, di una profonda umanità. Ma è l’uso della simbologia, coniugato a spunti di brutale iperrealismo, il cuore del suo discorso. Le barche di disperati che partono dall’Africa, dal Medio Oriente, dirette sulle coste europee del mediterraneo, divengono, nelle sue opere, le barchette di carta, che ogni bambino ha fatto navigare nel bagnetto della sua infanzia. Ma il riferimento infantile, naif, non deve trarre in inganno, esso non vuole, in alcun modo, ridimensionare la portata del dramma di questi anni.

Su quelle barchette, su quelle“navi”, su quelle carrette del mare, che Giuseppe propone in tutte le opere di questo ciclo, vi sono a bordo individui autentici, bambini, donne, uomini, che soffrono e spesso muoiono, annegati, brutalizzati da spietati mercanti di carne umana, sparati, a bruciapelo, da questi criminali sfruttatori del dolore, annegati, asfissiati nelle stive. Oppure, gettati in mare dai loro stessi “compagni” di viaggio, perché scoperti “infedeli”. E’ una faccenda estremamente complicata e Giuseppe non fa nulla per nasconderlo o per edulcorarla.  Europa, come una sirena del mito, è lì seducente, ed è verso di lei che si tendono le braccia di questi disperati. L’Europa, questa affascinante creatura fisica e immaginaria, ha un profilo nitido e delicato, che lascia presagire la sua grande bellezza interiore, ma è una silhouette di stile magrittiano, un disegno che mostra solo i contorni, dentro c’è un vuoto. E’ una vacanza di senso, un deserto di significati, un vuoto di valori? Oppure semplice e colpevole inanità? Non saprei dirlo. E’ il fruitore, con il suo finish, che si deve fare protagonista, che deve dare il suo contributo, perfornire significati all’opera.  Una cosa è certa queste mani che si protendono verso la vecchia-giovane Europa, non sono tutte candide e immacolate. 

 

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Vi sono anche mani rosse, sporche, grondanti di sangue. Forse è lo stesso sangue che colora tragicamente anche il mare, oppure che scorre, attraverso rivoli sottili, come quello che può sgorgare dal foro prodotto su un corpo, da un colpo di fucile o di revolver, che si intuisce più volte nei quadri di Giuseppe Leone.  E fra quelle mani, protese verso Europa, ve ne sono di ogni genere, vi sono quelle che vogliono abbracciare, congiungersi, trovare accoglienza, come un bambino che si rifugia fra le braccia amorevoli di una madre, ma vi sono anche mani violente, criminali, che vogliono invece ghermirla, stuprarla, assassinarla, nel corpo e nello spirito. Giuseppe Leone lo sa e la sua opera non lo nasconde. Anzi lo rivela, con uno stile che mette in campo il ragionamento e contemporaneamente parla alle emozioni. 

Un modo di comunicazione, intrinsecamente artistico, che rifugge ogni retorica. E in questo vi è uno dei pregi maggiori della sua creazione.  Non vi è ridondanza nell’opera di Leone, non vi è mai, anche quando ci propone un’immaginaria lingua, coi suoi segni vagamente orientali, un alfabeto fantastico, che spesso si imprime su uno sfondo nero, come certe bandiere cupe che vediamo in tanti filmati, vecchi e nuovi, alla televisione, il che ci fa pensare, ancora una volta. Insomma, Giuseppe Leone, ci dice che, di fronte alle tragedie sconvolgenti in atto, abbiamo bisogno di fare spazio nella nostra testa, abbiamo necessità di aprire la nostra mente. Ma aprirla come? Come un dispositivo di comprensione, analisi, conoscenza, che è capace di discernere ciò che è utile e buono, o come una bocca che, ingenuamente ingorda, si prepara a inghiottire qualunque boccone, anche quello avvelenato? Oppure, peggio ancora ritrovarcela divisa in due, da un colpo di accetta? Anche qui, l’artista fa il suo mestiere. Scopre uno scenario di riflessione, apre uno squarcio, pone una domanda, e ci costringe tutti a riflettere.  

 

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Del resto gli oggetti, tutti, organici e inorganici, materiali e immateriali, fisici e concettuali, sono quasi sempre innocenti. Colpevole è l’uso che di essi facciamo, la funzione che vi attribuiamo, di volta in volta. Persino un filo spinato, può divenire una corona di spine, che evoca, ineluttabilmente, la vicenda di un Dio, che si fece uomo, per insegnarci, col suo estremo sacrificio, la via per la salvezza, per regalarci il verbo universale della solidarietà. E così, quello stesso filo spinato, che, srotolato attorno ai campi di sterminio, è il segno indelebile della crudeltà e dell’infamia, può spezzarsi per consentire alla libertà, all’amore, di vincere, di trionfare, di passare.  Ma se a entrare nel “dipinto”, a tentare di invaderlo, colonizzarlo, brutalizzarlo è la cultura, l’ideologia, la logica di un mondo, inconfondibilmente evocata dalla mano mozzata, se a invocare, con presupposti levantini, l’accoglienza, è questa concezione della vita, allora il quadro resta e deve restare impenetrabile. Altrimenti per Europa è la fine. E’ chiaro che certi sistemi di pensiero, certe Weltanshaung, continueranno a immaginarsi come utopia e mito, idea nobile e astratta, di mondi perfetti e puri, come gli sfondi e le strisce dorate che Giuseppe Leone mette nei quadri del suo “Esodo”. 

Ma Europa ha già sperimentato sulla sua pelle come, quelli che per alcuni sono sogni meravigliosi, nobili utopie, si rivelano, tragicamente e per tutti, come gli incubi peggiori, i più terrificanti che si possa immaginare.  Meglio allora riferirsi al mito del viaggio, che sempre e ineluttabilmente è duro, difficile, periglioso, come quello di Ulisse, e di centinaia di generazioni greche, che su una barchetta, forse poco più grande di quelle che rappresenta Giuseppe Leone, volsero la prua ad Occidente e vennero a dare il loro radicale contributo alla creazione del “nostro” mondo. Su quelle barchette che dalle coste dell’Ellade, arrivavano nel nostro Sud, viaggiavano la filosofia, la moneta, e l’embrione della democrazia. Dobbiamo molto a quegli immigrati. All’emigrazione greca e poi a quella giudaico-cristiana dobbiamo tutto quello che siamo: la libertà, l’eguaglianza, la vita. E l’arte? Può ritenersi estranea a questa vicenda? Può immaginarsi avulsa da questa grande epopea? Io non lo credo affatto. E Giuseppe Leone neppure.  Egli sa che l’arte non può rimanere sorda davanti ai drammi del reale e del mondo. Forse per questo sulla sua tavolozza ha disseminato tanti cotton fioc. Abbiamo bisogno di aprire molto bene le nostre orecchie e metterci all’ascolto delle tragedie della contemporaneità. Abbiamo bisogno di capire e di scegliere. Di essere vigili e pronti. Il dramma in atto, le minacce di fronte ai nostri occhi, sono tali da far tremare i polsi. E l’arte non può ignorare la realtà dell’Olocausto, quello già visto, quello immanente e possibile. 

 

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Disse un cattivo filosofo, in un suo momento di lucidità e di saggezza, che dopo Auschwitznon era più possibile fare “poesia”. Io credo, invece, che si debba fare ancora poesia, il genere di poesia che è da fare, dopo una tragedia di questo genere. Ovvero, penso che la poesia sia necessariamente cambiata dopo quella vicenda, dopo quell’orrore. Oggi la poesia ha il compito di non permettere mai più che accada. Quello così come altri orrori. E l’arte che cos’è se non “creazione”, ovvero poesia? Forse è questo che Giuseppe Leone vuole dirci, con il suo pennello attaccato alla tavolozza, immobile, ingabbiato, impedito nel movimento, imprigionato dal filo spinato, e con un buco di proiettile, dal quale fuoriesce, ancora una volta, il sangue. Il colore vermiglio, vivido, inconfondibile, della vita e della morte. No, l’arte non è morta. L’autore non vuole comunicare questo. 

Forse il titolo migliore per quell’opera sarebbe stato: “questa non è una tavolozza”, no, è, piuttosto, uno stimolo, una sollecitazione a ripensare un’estetica del mondo. Insomma, Giuseppe Leone vuole dirci, “semplicemente”, che l’arte ha di nuovo, come sempre, un compito fondamentale da assolvere. E lui sta, con passione e coraggio, facendo la sua parte.