Il nuovo presidente della Corea del Sud

 

 

Moon Jae-In è il nuovo presidente della Corea del Sud, eletto con il 41,4% dei voti.
Il leader del Partito Democratico, l’attuale Presidente, era già stato dato come favorito nei sondaggi, soprattutto nel confronto con Hong Yoon-Pyo, capo del Liberty Korea Party, che si è però aggiudicato il 23,3% dei voti.
Finisce, con l’elezione del capo del Partito Democratico, il Minju, la poliennale egemonia politica del centro-destra, rappresentato dal vecchio partito Sanjuri, che nel febbraio scorso, in seguito alle vicende giudiziarie riguardanti l’ex-Presidente Park Geun-Hye, si era scisso cambiando nome, prendendo quello, infatti, di Liberty Korea Party.
Il tasso di affluenza alle urne è stato particolarmente elevato, ben il 77,2% degli aventi diritto.
Ma chi è questo avvocato sessantaquattrenne che ha una lunga storia professionale come difensore dei diritti civili?
Egli ha già avuto una esperienza politica di rilievo come capo di gabinetto del vecchio presidente sudcoreano Roh Moo-Hyun, è stato membro dell’Assemblea Parlamentare di Seoul, ha infine fondato il quotidiano progressista Hankioreh.
Sul piano politico, il nuovo Presidente sudcoreano desidera, soprattutto, una riunificazione pacifica con Pyongyang.
E’ questa la riproposizione della Sunshine Policy adottata da ben due vecchi presidenti di Seoul, Kim Dae-Jung e colui che sembra essere ancora il punto di riferimento di Moon Jae-In, Roh-Moo Yun.
Peraltro, il neoeletto presidente si dichiara anche “amico dell’America”, soprattutto per aver evitato alla Corea meridionale il comunismo di guerra ed aver sostenuto a lungo la sua crescita economica.
In sostanza, il nuovo leader sudcoreano vuole un ribilanciamento dei rapporti tra Seoul e Washington e, in particolare, la piena autonomia della Corea del Sud per quanto riguarda la politica di riunificazione con Pyongyang.
Naturalmente, l’idea stessa di riunificazione tra le due Coree si basa su un potenziamento autonomo del sistema militare del Sud e su un progetto economico di fusione tra le due vecchie aree, memoria tragica della guerra fredda in Asia, l’area nella quale lo scontro tra Usa, Urss e Cina è stato più feroce e lungo.
La riunificazione, disse Park Geun-Hye nel 2014, sarebbe una “bonanza economica”.
L’idea di quell’anno ebbe il sostegno sia di Barack Obama che di Xi Jinping, due statisti entrambi interessati a depotenziare militarmente l’area e, soprattutto, a creare un success case economico e finanziario nel Pacifico, per sostenere la crescita sia della Cina che il ciclo economico del Giappone.
L’unico che disse di no, esplicitamente, sempre nel 2014, fu il Rodong Sinmun, il quotidiano ufficiale del Comitato Centrale del Partito dei Lavoratori della Corea del Nord.
La questione è comunque complessa, dato che le attività della Corea settentrionale, sul piano nucleare e missilistico, hanno prodotto una lunga sequenza di Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, dalla 1718 alla 1874 fino a quella 2087, oltre a un blocco di sanzioni economiche pesanti.
Pyongyang ha la necessità di porre davanti al progetto riunificatorio il suo potenziale nucleare e militare, unica garanzia per la stabilità della sua classe dirigente.
Seoul ha la necessità, invece, di internazionalizzare la questione coreana per permettere una riunificazione che, nei suoi progetti, consentirebbe di rimettere in sesto l’economia del Nord e creare un boom produttivo che renderebbe la Corea unificata una grande e stabile “tigre asiatica”.
Seoul pensa alla riunificazione soprattutto come ad una occasione straordinaria di crescita della sua economia.
Il che, peraltro, sarebbe anche nell’interesse degli stessi USA.
Naturalmente, la progressiva destabilizzazione della Corea del Nord porrebbe in pericolo la Cina, che confina per 1420 chilometri con Pyongyang, e la Federazione Russa, che confina con la Corea settentrionale per 17 chilometri terrestri e 22,1 chilometri, ovvero 12 miglia nautiche, via mare.
Se la polarità tra Cina e USA si allentasse, proprio in relazione al futuro della Corea del Nord, questa sarebbe la chiave strategica primaria per realizzare la riunificazione tra Seoul e Pyongyang.
Mosca poi il punto di riferimento naturale per la ristrutturazione del potenziale nucleare e missilistico nordcoreano, che diverrebbe garanzia per la sicurezza di tutto il Pacifico meridionale.
Sul piano economico, il nuovo presidente del Sud si caratterizza per la lotta contro lo strapotere dei chaebol, i grandi conglomerati industriali che hanno finora determinato sia la crescita economica del Sud sia le numerose incrostazioni corporative che oggi la impediscono.
La Corea del Sud, peraltro, soffre di un bassissimo tasso di natalità, che naturalmente ne blocca lo slancio economico; e di una crisi del welfare che, per la prima volta dagli anni ’50, fa trasparire il fantasma della povertà di massa.
La dialettica politica e economica quindi oggi è, a Seoul, quella tra i “protetti” e i “marginali”, in un contesto di società dei due terzi in cui aumentano i poveri e diminuiscono le tutele per chi è ancora al lavoro, con un aumento parallelo dei disoccupati, il vecchio “esercito produttivo di riserva” che stabilizza i salari al loro punto più basso.
Sul piano geopolitico, la Corea del Sud, ha detto il nuovo Presidente, dovrà “imparare a dire di no all’America”, soprattutto per quanto riguarda la rete di protezione missilistica THAAD che, peraltro, dovrebbe essere pagata i gran parte da Seoul.
Inoltre, la Corea meridionale dovrebbe “assumere la guida del flusso di eventi” riguardanti la minaccia nucleare posta dal Nord.
Tradotto in linguaggio corrente, Seoul potrebbe allora iniziare una serie di colloqui con Pyongyang tali da far abbassare la guardia militare al Nord e tali, soprattutto, da porre la difesa del Sud nelle dirette mani del governo nazionale; e non del solo rapporto tra Seoul e Washington.
Basterà? Si, se al rifiuto del sistema THAAD farà seguito una serie di misure economiche e militari tali da riassicurare il Nord.
E a far entrare nel quadrante strategico coreano sia la Federazione Russa che la Cina, che dovrebbero riequilibrare il sistema, mentre gli USA allentano la presa su Seoul.
Dal punto di vista economico, la riunificazione delle due Coree dovrebbe costare dai 25 miliardi di Usd ai 3,5 trilioni, ponendo come obiettivo il possibile raddoppio del PIL del Nord in quattro anni dalla riunificazione.
E, sempre con questo solo calcolo in mente, la riunificazione dovrebbe costare altri 50 o 67 miliardi di Usd.
Seoul quindi non ce la può fare da sola, a sostenere questi costi, e dovrebbe allora assorbire dall’estero almeno la metà dei fondi necessari.
Uno scenario da valutare è poi quello che oggi sembra il più probabile, ovvero di una Corea del Nord che accoglie il minimo necessario di riforme economiche interne per mantenere indefinitamente lo status quo.
Lo scenario numero due, sempre per il Nord, ipotizza un collasso economico a breve che comporterebbe costi enormi sia sul piano umanitario che su quello della messa in sicurezza delle armi nucleari, biologiche, convenzionali del Nord, con un possibile scarico delle tensioni nella stesa Corea del Sud, che non potrebbe risolvere da sola l’implosione di Pyongyang.
Un altro possibile scenario è quello di una guerra tra le due Coree, che innescherebbe tensioni inimmaginabili in Cina, in Russia e in Giappone.
Naturalmente, la classe politica del Sud, almeno dagli anni ’90, ha assunto come primario il criterio che la riunificazione, evitando le scelte più pericolose e infauste, sarà un processo lentissimo; e nel quale nessun governo a Seoul farà alcunché per favorire una crisi, economica, strategica o politica, nella Corea del Nord.
Peraltro, la pubblica opinione del Sud ritiene, con il 67%, che le due Coree dovrebbero riunificarsi, ma ben il 56% dei coreani del Sud pensa che il proprio Paese perderebbe, più che guadagnare, dal processo di unione tra Nord e Sud.
Sul piano geopolitico, la riunificazione potrebbe implicare l’autonomia strategica della Corea, con l’abbandono del Sud da parte delle FF.AA. nordamericane, giocando alla fine la Cina contro gli Usa e viceversa.
E la Corea del Nord è, in ogni caso, una zona cuscinetto che serve alla Cina per evitare una ancor più stretta alleanza tra la Corea del Sud e gli Usa.
La Cina non desidera certo una riunificazione tramite la guerra tra Nord e Sud, lo scenario peggiore per Pechino, mentre lo scenario ottimale, per i cinesi, è quello di uno status quo attuale tra le due Coree che impedisce la crisi umanitaria del Nord, che si scaricherebbe integralmente sul territorio cinese, mentre il Sud continua a mantenere un alto flusso di investimenti verso la Cina.
Quindi, Pechino sostiene, ma fino ad un certo punto, Pyongyang; e accetta il costo del mantenimento delle due Coree invece della previsione di una riunificazione che sarebbe, per Pechino, lo scenario economico e di sicurezza peggiore.
Una Corea unita sarebbe per la Cina, con ogni probabilità, un nuovo Vietnam, un non compliant power e un forte concorrente economico.
Si potrebbe anche immaginare, in futuro, un blocco marittimo tra Usa e Giappone, che riequilibrerebbe un blocco continentale tra Cina, Russia e Corea unificata, mentre Washington dovrebbe comunque riuscire a convincere Seoul a evitare l’alleanza militare con Pechino.
Anche da questo punto di vista, gli Usa tenderanno ad avere in futuro una sequenza di crisi nell’area coreana, sia che si vada ad una riunificazione lenta, che comunque manderebbe fuori dalla penisola le sue FF.AA., sia che si mantenga lo status quo tra le due Coree, che è la condizione nella quale l’alleanza tra il Sud e Pechino diventa ottima, garantendo peraltro una riunificazione più rapida e stabile.
Naturalmente, la stabilità della penisola coreana è essenziale anche per la sicurezza del Giappone.
Per Tokyo, lo scenario migliore sarebbe quello di uno status quo tra le due Coree che determina una progressiva denuclearizzazione del Nord.
In seconda istanza, il Giappone preferisce una Corea, anche riunificata, che rimanga amica di Washington e, naturalmente, di Tokyo, economicamente aperta e che permetta alle forze Usa di continuare a stazionare nell’area.
Tanto Seoul vuole avvicinarsi a Pechino, quanto Tokyo dovrà allora avvicinarsi a Washington, per mantenere l’equilibrio dei potenziali strategici nella penisola coreana e nel resto della vecchia “zona di coprosperità” dell’Impero giapponese.
Per la Russia, l’opzione è in primo luogo economica: tra il 2000 e il 2004 il commercio bilaterale tra Mosca e il Nord è aumentato del 36% e quello tra la Russia e Seoul del 23%.
La Federazione Russa vorrebbe poi, nella questione delle due coree, un risultato altamente improbabile: una Corea unita nella quale Mosca possa allontanare il Sud dalla sua relazione di sicurezza con gli Usa.
In termini più razionali, Mosca vuole una riunificazione che mantenga anche gli Usa nell’area e ne allontani, paradossalmente, la Cina.
Ma è probabile che una Corea unita sarebbe ancora un asset primario per la Cina, ma solo l’economia statunitense potrebbe, insieme alle altre maggiori, sostenere il costo della riunificazione, anche se lenta.

Giancarlo Elia Valori