Imperialismi, classe politica e un viaggio in Qatar

di Vincenzo Olita

Sono trascorsi poco più di dieci giorni dalla visita in Italia del Presidente cinese quando solamente Società Libera e il Partito Radicale, in una Roma blindata, riuscirono a manifestare il proprio dissenso. Tutto si è chetato. La retorica di un modesto Presidente del Consiglio che presiede ma non governa, l’enfasi e il fanciullesco entusiasmo del suo vice 5Stelle, l’ingenua e fondamentalmente falsa presa di distanza del vice leghista, utile solo agli equilibrismi interni al governo, la scaltra mossa vaticana per riceverlo al di là del Tevere che, con più astuta diplomazia, i cinesi hanno rigirato in un invito a Pechino.
L’intero nostro mondo politico aveva già ignorato sul nascere l’affronto che Francia e Germania, con il supporto attivo di Juncher, ci avevano riservato incontrando Xi Jinping in veste di massimi rappresentanti dell’Europa. Il Governo si è molto speso per convincerci che con i cinesi faremo buoni affari. Può darsi, ma a quale prezzo?
La Cina, senza sparare un colpo, é un formidabile sviluppatore e sostenitore di colonie, nel silenzio della nostra politica e della nostra informazione, che pur si occupano costantemente dell’Africa e delle sue popolazioni. L’Africa, appunto, la zona del mondo, al di fuori del continente asiatico, in cui più consistenti e articolati sono interessi, investimenti e penetrazione dell’impero cinese che la sua stessa dirigenza ha definito “un nuovo modello di partecipazione strategica”. Sostanzialmente ventennale, anche se i primi rapporti di cooperazione risalgono agli anni ’60, il coinvolgimento cinese nel 2000 vide la nascita del Forum on China-Africa Cooperation – FOCAC, un meccanismo economico finanziario per la cooperazione che interessa ormai 40 dei 54 Paesi del continente.
In 36 di essi operano diecimila imprese cinesi che, tra l’altro, assicurano alla Cina l’80% delle risorse mondiali di rame, il 70% del legname africano e il 90% del cobalto, di cui l’Africa possiede il 60% delle riserve mondiali, l’uranio tanzaniano, il petrolio angolano e nigeriano e altre innumerevoli materie prime.
Dalla Guinea Equatoriale e Nigeria a ovest, all’Egitto, Sudan, Etiopia e Gibuti a nord est, dal Gabon, Angola e Congo a sud ovest, al Monzambico, Zambia, Kenya, Tanzania e Sudafrica vi é stato, e continua ad esserci, un massiccio investimento in infrastrutture, che portano l’impegno annuo di Pechino in Africa a circa 50 miliardi di dollari, facendo della Cina il primo partner economico. Dighe, gasdotti, porti, aeroporti, linee ferroviarie, la Mombasa-Nairobi, la Gibuti-Addis Abeba e una moderna linea tramviaria nella capitale etiope, da poco completate, sono l’evidente e poderoso investimento in infrastrutture che, unitamente a un’estesa politica dei prestiti a tassi d’interesse estremamente bassi, sono la plastica attuazione della strategia di penetrazione dell’economia cinese in Africa. Penetrazione non solo economica vista la recente apertura a Gibuti di una base navale militare e il trasferimento, negli ultimi anni, di circa un milione di cinesi.
E l’Europa? Il Presidente del Parlamento europeo, il berlusconiano Antonio Tajani, al termine del Consiglio Europeo del 29 giugno a Bruxelles, si disse soddisfatto per il trasferimento di 500 milioni di euro al Fondo fiduciario dell’ Ue per l’Africa.
La Cina è in Africa, Tajani gioca a Monopoli e l’inconsapevole Conte, dopo aver ossequiato Xi Jinping, omaggia il Qatar tralasciando che il paese, oltre ad aver realizzato una colossale e brutta speculazione edilizia nel centro di Milano, finanzia con decine di milioni la costruzione di moschee e centri islamici in Italia.