Lo Stato ha fallito: liberiamo i beni culturali

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L’Italia ha un patrimonio artistico record: 5mila tra musei, monumenti e aree archeologiche, con 49 siti Unesco. Un dato esemplificativo che viene dal Sud offre però, ancora oggi, una amarissima riflessione: nel 1997 visitarono la Reggia di Caserta 1,1 milioni di persone, nel 2013 meno della metà: 531mila. La cultura non è, infatti, né un obbligo né un diritto ma un desiderio. Nessun museo, biblioteca o cattedrale può veramente essere preservato, senza che siano le persone – con le comunità di cui fanno parte – a volerlo. Analizzando l’attuale gestione statale dei beni artistici e culturali, e l’indice di affezione e disaffezione presente, è oggi straordinariamente necessario riflettere sull’importanza della libertà di azione, di gestione e di cooperazione dei cittadini senza che vi sia un ente superiore che ne orienti le scelte. Il senso ultimo dell’arte non è solo un belvedere, ma piuttosto un sentire partecipato: se abbiamo consapevolezza di ciò tocca a noi persone e comunità, dimostrarlo. Purtroppo le scelte dei decisori politici continuano a preferire ricette già fallite, i cui costi si rivelano “amabilmente” scaricati sulla collettività: stanziare aiuti a fondo perduto ad enti in stato di emergenza. Garantire, ad esempio, altri finanziamenti a Pompei significa non voler capire il problema: Pompei, la Reggia di Caserta, Siti museali vari, non hanno bisogno semplicemente di altri soldi ma di capacità di reperirli e spenderli efficacemente. Hanno necessità che si costituisca attorno ad essi istituzioni autonome e indipendenti, non al guinzaglio del Ministero, che ne gestiscano le attività, reperendone i fondi e, con cittadini e amministrazioni locali, possano liberamente sviluppare progetti e iniziative. Se la gestione funzionerà, avranno quindi successo e proseguiranno a creare valore aggiunto, altrimenti toccherà cambiare, sempre puntando alla efficienza e valorizzazione dei beni, cogliendo i segnali dal mercato e non da leggi e regolamenti. La politica perderebbe così la possibilità di effettuare nomine clientelari e di orientare la scelta dei manager e tutto ciò andrebbe a beneficio del cittadino: utente e contribuente. Va peraltro chiarito che il ruolo del pubblico, nel settore della cultura, resta importante. Il pubblico deve controllare infatti che i gestori a cui è affidata la gestione del proprio patrimonio culturale rispettino le regole. E’ però soltanto scegliendo di dare autonomia di spesa e progettualità agli enti culturali che si incentivano soluzioni virtuose e redditizie, stimolando anche offerte innovative. Le ciambelle di salvataggio per i siti in difficoltà – come tutti i provvedimenti che ampliano l’azzardo morale – non risolvono i problemi, anzi li inaspriscono nel tempo, recando danni enormi al nostro patrimonio artistico. La cronaca recente continua a rappresentarci una drammatica situazione di degrado e perdita di opportunità: ne è un esempio la mancata apertura del sito di Pompei a capodanno, pare lasciando 2.000 turisti fuori dai cancelli (tra l’altro nel giorno in cui l’85% dei vigili urbani di Roma andava al lavoro per motivi di salute). A Pompei fa più danno lo Stato che il Vesuvio, con questa sottocultura assistenzialista e sindacatocratica che continua a colpire letalmente il “Belpaese”. Johann Wolfgang Goethe, durante il suo secondo viaggio in Italia nel 1829, scriveva: “L’Italia è ancora come la lasciai, ancora polvere sulle strade, ancora truffe al forestiero. C’è vita e animazione qui, ma non ordine e disciplina; ognuno pensa per sé, dell’altro diffida, e i capi dello stato, pure loro, pensano solo per sé.” Luca Nannipieri è un saggista e scrittore che si occupa di arte e beni culturali, studiando soluzioni innovative per poterli valorizzare e con lui condividiamo alcune riflessioni sullo stato attuale del settore in Italia e delle possibili aree di miglioramento. Di tutto il Patrimonio archeologico-artistico del nostro Paese, d’inestimabile valore, una buona parte spesso versa in condizioni di degrado ed abbandono mentre avrebbe bisogno di essere riscoperto, valorizzato e restituito alla fruizione di tutti. Perché non accade ciò? In Italia, come in altri paesi europei, sta avvenendo una crescita bulimica dei musei e dei luoghi musealizzati: tra il 1900 e il 1950 sono stati aperti 250 musei, tra il 1950 e il 2000 sono stati inaugurati 2600 musei, ovvero più di 10 volte tanti, e dal 2000 al 2006 sono stati creati 1182 musei. Ovvero in soli 6 anni sono nati 4 volte la quantità di musei aperti nella prima metà del Novecento. A questi numeri si aggiungono 46.025 beni architettonici, 5.600 siti archeologici, 8.500 borghi storici. A fronte di questo, le leggi vigenti (il Codice dei Beni culturali) non lasciano spazi agevoli per la libera iniziativa di associazioni, comitati, aziende, consorzi, cooperative, fondazioni, che potrebbero generare indotto, lavoro, occupazione, ricerca attorno a questo patrimonio. La conseguenza è la depressione di molti siti culturali ad aree di abbandono e degrado. Si inaugurano, ma poi non si hanno gli strumenti normativi per renderli luoghi vivi, propulsori di interessi, progetti, profitti, sperimentazioni. Tra le idee per render vivi i siti museali e le bellezze italiane – uniche al mondo – quali esempi suggeriresti e quali casi di successo conosci? Riusciremo a trasformare i luoghi in nostri luoghi, e le rovine in spazi di entusiasta e libera conoscenza? La mia proposta di legge che sta al Senato corre su questi binari: rendere i siti culturali degli enti autonomi e indipendenti, la cui gestione è affidata a società o associazioni non pubbliche, con la precisa clausola che ricevano soldi pubblici in proporzione a quanto trovano individualmente. Così si premia una gestione virtuosa e sperimentale, che cerca di coinvolgere cittadini, turisti e sponsor. Inoltre, occorre attenuare molti degli attuali divieti e vincoli che deprimono ad oggi le azioni propositive sui siti stessi e che consegnano un potere di interdizione e di decisione extra ordinario alla Soprintendenza. Casi positivi? Sono pochi: dal Lucca Center of Contemporary Art alla Domus romana sempre in lucchesia, dal Museo Cappella Sansevero a Napoli alla Fondazione Musei Civici di Venezia. Sono tutti accomunati dal fatto che sono esperienze o private o miste, pubblico/private. Un tuo libro ha per titolo “Libertà di cultura” ma è il sottotitolo quello che meglio ispira all’azione: “meno stato e più comunità per arte e ricerca”. Come agire? Lo Stato crea inevitabilmente una meccanica verticistica del potere, che accentra le decisioni e moltiplica l’apparato burocratico. Il risultato è che su Pompei non si sa mai di chi sia la colpa: ogni decisione si perde in un labirinto di cariche, ruoli, autorità che confliggono tra loro e creano paralisi. Vogliamo svoltare? Trasformiamo Pompei, come gli altri numerosi siti culturali, in strutture autonome dal Ministero, a bilancio interno, con un consiglio di gestione che ruota quinquennalmente, a seconda dei risultati qualitativi e quantitativi ottenuti. Il sito di Ercolano con la fondazione Packard e quello di Stabiae con la fondazione RAS (Restoring Ancient Stabiae) sono molto più attivi della ministeriale gestione di Pompei. Sembra esser opinione diffusa che solo lo Stato possa gestire i beni culturali. Cosa accade in altri paesi occidentali? Ogni paese ha una tradizione e una legislazione diverse: la Francia ha una giurisdizione improntata ad una presenza dello Stato-Nazione molto marcata, messa in atto da un robusto Ministère de la Culture et de la communication e dal filiale Institut national du patrimoine (INP), che centralizzano la tutela e la valorizzazione del patrimonio. Al lato opposto, con un’opposta visione, vi è la Svizzera, con una conservazione e gestione delle evidenze monumentali e paesaggistiche molto cantoniera, molto decentralizzata. E’ possibile rileggere la millenaria storia del patrimonio storico-artistico come una lenta e progressiva affermazione del concetto di persona e delle sue capacità uniche ed irripetibili? Per secoli gli artigiani e le loro maestranze che facevano le cattedrali, i bassorilievi, le sculture, gli affreschi, i codici miniati, lavoravano da anonimi. Poi, sedimentazione dopo sedimentazione, iniziano a firmarsi dall’XI-XII secolo (in Italia, ad esempio, gli scultori Biduino, Wiligelmo, maestro Nicolò o l’architetto Diotisalvi), iniziano cioè ad affermare che la persona conta, che è insopprimibile, che il loro lavoro dovesse avere una paternità riconosciuta. La storia liberale ha un suo capitolo decisivo proprio in questi artisti-artigiani che, nell’atto della loro firma, rivendicano l’inviolabilità del loro essere creatori e del loro essere individui. Il tuo progetto di riforma per la valorizzazione dei beni artistici e storici prevede un cambiamento della Costituzione e delle leggi, l’abolizione delle Soprintendenze e degli Istituti centrali: in che modo dovrà esser correttamente implementato? Il bando internazionale per la direzione dei principali musei italiani in che direzione va? La Costituzione deve essere modificata nei suoi articoli 9 e 117 affinché si arrivi ad un superamento radicale dell’attuale sistema di tutela. Le soprintendenze andranno pian piano soppresse per far nascere una tutela bricolage che nasce dai territori e che organicamente ad essi si definisce. Ad una tutela censoria, comandata dall’alto, dovrà pian piano sostituirsi una tutela e una vita effettiva dei musei e dei siti culturali che germinano in stretto rapporto con le libere insorgenze delle persone. Il bando per la direzione dei maggiori musei pubblici italiani, voluto dal ministro Franceschini, è stato purtroppo impostato assai male: quale personalità dal profilo internazionale lascerebbe i suoi incarichi in aziende,  holding,  banche,  fondazioni,  gruppi  editoriali,  per  un  lavoro  che  frutta  quanto  quello  di  un commercialista medio di provincia? Davvero possiamo pensare che un dirigente di Amazon, un responsabile della  National  Geographic,  o  i  vari  dirigenti del  Louvre,  lascino i  loro incarichi  per  prenderne uno malpagato? Il criterio opportuno sarebbe stato quello di uno stipendio graduato in base ai risultati ottenuti, secondo parametri preventivi decisi concordemente.  Coi tuoi reportage hai posto l’attenzione sul tema del contrabbando illegale di opere d’arte, proveniente dai saccheggi dei siti archeologici e musei del Medio Oriente e dell’Africa sahariana e mediterranea, ad opera degli integralisti islamici, per finanziarsi. Quando è grave la situazione e quali sono gli interlocutori possibili per non vedere scomparire una tale quantità di ricchezza? I paesi in cui avviene questa distruzione delle testimonianze preislamiche o giudicate offensive verso Maometto sono finora Iraq, Siria, Libia, Mali, Libano, Egitto, Indonesia, Nigeria, Niger, Cisgiordania, Striscia di Gaza, Afghanistan, Pakistan, India, ma può allargarsi a molti altri Stati dallo Yemen all’Uzbekistan, dall’Azerbaijan all’Arabia Saudita o alla Somalia. Abbattimenti e cariche di esplosivo sono avvenute anche in Algeria, Tunisia, Kurdistan. Il saccheggio delle opere d’arte finisce nel mercato nero, con un giro d’affari che arriva a 2 miliardi di euro. E’ dunque una risorsa finanziaria importante per i diversi gruppi di fondamentalisti islamici, al pari della droga o dei rapimenti. Gli interlocutori inevitabilmente saranno quegli Stati, siano essi anche con basso o modesto tasso di democrazia, come la Giordania o la Turchia, nei quali i gruppi musulmani più integralisti sono però contenuti. Le guerre si scongiurano anche trattando con i più malleabili dei nostri nemici.      


Antonluca Cuoco Salernitano, nato nel 1978, laureato nel 2003 in Economia Aziendale, cresciuto tra Etiopia, Svizzera e Regno Unito. Dal 1990 vive in Italia: è un “terrone 3.0”. Si occupa di marketing e comunicazione nel mondo dell’elettronica di consumo tra Italia e Spagna. Pensa che il declino del nostro paese si arresterà solo se cominceremo finalmente a premiare merito, concorrenza e legalità, al di là di inutili, quando non dannose, ideologie. Twitter @antonluca_cuoco