Sga, dal Banco di Napoli ad Atlante2 storia di un “miracolo” italiano

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E’ il “cold case della finanza italiana”: una “storia di successo” in chiave meridionale quella della Sga che recuperando i ‘crediti cattivi’ del Banco di Napoli ha messo da parte un tesoretto con cui, venti anni dopo, va oggi in soccorso delle banche in difficoltà partecipando con 450 milioni alla dotazione del fondo Atlante2. 
Cos’è la Sga, perchè è una storia definita incredibile? “E’ il caso di maggior successo di una bad bank in Europa: ha lavorato per anni in assoluto silenzio ed oggi ha risorse che, con gli attuali moltiplicatori, permettono di acquistare sofferenze bancarie per 12 miliardi” spiega Mariarosaria Marchesano, giornalista economico-finanziaria che ne ha ricostruito la vicenda in “Miracolo Bad Bank”, la “vera storia della Sga a 20 anni dal crac del Banco di Napoli”, edito da goWare. 
“La crisi del Banco di Napoli fu un caso eclatante: il Sud perse, con la privatizzazione, la sua unica grande banca. La Sga lo ripulì dalle sofferenze pagandole il 70% del valore nominale, un prezzo alto, sarebbe impossibile oggi. Pagò con un prestito della Banca d’Italia che, con il decreto Sindona del 1984, allora poteva fare salvataggi creando e finanziando bad bank”. 
“Per i primi cinque esercizi la Sga perse moltissimi soldi, soprattutto per gli interessi passivi sul prestito: una megaperdita poi ripianata dalla Banca d’Italia. Dal 2003 è come se cambiasse il vento: da allora macina profitti. Oggi ha in cassa liquidità per 500 milioni che potrà salire a quota 700 chiudendo le 4mila pratiche ancora aperte (erano 37mila). Ha recuperato il 92% di quei crediti cattivi” e ci ha guadagnato, secondo l’analisi di Mariarosaria Marchesano, “incrociando la bolla immobiliare quando ha venduto gli immobili che garantivano quelle sofferenze”. 
Seguendo le sorti del Banco di Napoli la Sga entrò prima in orbita Bnl, quindi in Sanpaolo. Poi, “quest’anno il ‘decreto banche’ ne ha previsto il passaggio al Tesoro e, in mani pubbliche, diventa oggi un bancomat utilizzabile per le banche”. E’ anche una storia che al Sud “riapre vecchie ferite”. 
Perchè? “La vicenda Banco di Napoli creò grandi mal di pancia, con diverse scuole di pensiero. Il mio libro non sposa la tesi dello ‘scippo’ del Banco anche se fa riflettere sulla qualità di quei crediti. Forse, se è andata così, tanto cattivi non erano”. 
C’è poi la Fondazione Banco di Napoli “che in bilancio riporta ancora presunti diritti su quei crediti e che potrebbe ora voler verificare se esistono realmente”. E c’è chi vorrebbe che quelle risorse restassero tutte sul territorio, al Sud. “E’ la tesi dello Svimez. Io penso che basterebbe un riconoscimento simbolico: con una cinquantina di milioni, per esempio, si potrebbe finanziare un fondo per le start up meridionali, i giovani imprenditori o l’occupazione”.