Il caso Drassich: un dialogo internazionale

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“Poiché l’atto d’accusa svolge un ruolo fondamentale nel procedimento penale, l’articolo 6 par.3 lett. a c.e.d.u riconosce all’imputato il diritto di essere informato non solo del motivo dell’accusa, ossia dei fatti materiali che gli vengono attribuiti e sui quali si basa l’accusa, ma anche in maniera dettagliata sulla qualificazione giuridica data a tali fatti.” . Queste le parole usate nel 2007 dalla Corte di Strasburgo nel famoso caso Drassich vs Italia.

Qual è l’antefatto? Mario Drassich, magistrato triestino, era stato condannato in primo e secondo grado per il reato di corruzione in atti d’ufficio (art. 319 c.p. ) commesso durante lo svolgimento della sua funzione di giudice delegato presso il Tribunale Fallimentare.  Nel 2004 presenta ricorso in Cassazione contro la sentenza di appello adducendo quale motivo l’estinzione del reato per il decorso del termine di prescrizione. La Cassazione rigetta il ricorso: il reato non è prescritto perché Drassich non è colpevole per il reato di corruzione in atti d’ufficio bensì per  corruzione in atti giudiziari (art. 319 ter c.p.), avente un diverso termine di prescrizione. Cosa è successo? La Cassazione ha mutato ex officio la qualificazione giuridica del fatto. Ed è proprio sulla base di questa riqualificazione giuridica operata senza alcuna richiesta di parte che Drassich si rivolge alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, la quale si pronuncia in data 11 dicembre 2007 con le parole anzi riportate, intimando la riapertura del processo per assicurare la restitutio in integrum al soggetto leso. Ancora una volta la domanda è, cosa è accaduto?

La corte di Strasburgo ha ritenuto che la Cassazione sia incorsa in un errore procedurale: la corte era legittimata ad operare la riqualificazione del fatto – lo ammette il nostro  codice di rito -, ma avrebbe dovuto lasciare a proposito un adeguato spazio difensivo all’imputato. Il reato di corruzione in atti giudiziari è, infatti, un reato autonomo rispetto al 319 c.p. e postula un quid  pluris: il dolo specifico. Il diritto di difesa pretende il diritto ad essere informati non soltanto del motivo dell’accusa, ma anche della natura della stessa, ovvero delle norme di legge che si assumono violate. E nel caso di specie non era stata data al ricorrente la possibilità di riorganizzare la propria strategia difensiva a riguardo, senza neppure considerare che  – secondo Strasburgo – la riqualificazione non era sufficientemente prevedibile per il ricorrente.

Dopodiché la Corte constata che nessuna richiesta di risarcimento è stata avanzata da Drassich, il quale tuttavia ha diritto alla restitutio in integrum, e quindi alla riapertura del processo. Lo strumento più idoneo per perseguire questo scopo viene individuato nell’art. 625 bis , ricorso straordinario per errore materiale e di fatto: nel 2009 si apre nuovamente in Italia la vicenda Drassich, e il diritto del ricorrente ad interloquire relativamente alla diversa qualificazione giuridica dei fatti è assicurato. Ciò che forse è inaspettata è la nuova sentenza di condanna per corruzione in atti giudiziari pronunciata dalla Cassazione. Condanna motivata dal fatto che il dolo specifico, secondo la Suprema Corte, già si evinceva dal decreto di rinvio a giudizio e la successiva riqualificazione giuridica non era affatto imprevedibile come dichiarato dalla Corte di Strasburgo.

A Drassich allora resta un’ultima possibilità: avanza richiesta di revisione alla Corte d’Appello, adducendo quale motivo la necessità di adeguare la pronuncia interna ai principi della Corte di Strasburgo. L’istanza viene rigettata , così come il successivo ricorso in Cassazione.

Si chiude così la vicenda del giudice Drassich, ma non senza conseguenze per l’ordinamento italiano. L’inadeguatezza del ricorso straordinario per errore materiale o di fatto a fronte della restitutio in integrum è infatti subito palese, spingendo la giurisprudenza interna a cercare  strumenti più idonei. Così il 7 aprile 2011 con sent. 113 la Corte Costituzionale , dichiarando l’illegittimità dell’art. 630 c.p.p. in rapporto all’art. 46 c.e.d.u. , introduce la “revisione europea”, mezzo straordinario di impugnazione che consente la riapertura del processo “quando ciò sia necessario per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte Europea dei diritti dell’uomo”.